È il giorno della cerimonia d’apertura dei Giochi Olimpici Invernali, anche se le competizioni ufficiali sono già iniziate. È uno di quei momenti dell’anno in cui lo sport è capace di creare storie bellissime, raccontare vicende umane, gesti atletici, colpi di scena sorprendenti.
Le Olimpiadi di Pechino, però, sono già diventate un affare geopolitico. Da mesi alcuni governi hanno annunciato un boicottaggio diplomatico dei Giochi, principalmente a causa della repressione cinese ai danni della popolazione uigura, nello Xinjiang, regione nord-occidentale del Paese.
Dopo gli attivisti e le istituzioni nazioni di diversi Stati, adesso il focus dell’attenzione si sta spostando sulle molte aziende che fanno affari con Pechino sfruttando la visibilità dei Giochi, e che di conseguenza tendono a chiudere un occhio sulle atrocità del governo di Pechino.
Nessuno dei 13 membri del principale programma di sponsorizzazione aziendale del Comitato Olimpico Internazionale – che include Coca-Cola, Visa, Intel, Airbnb, P&G, Allianz e Toyota – ha commentato la condizione della popolazione uigura nonostante le richieste. E negli Stati Uniti la politica sta già pensando di prendere le contromisure per le società che cedono alle pressioni cinesi per mantenere l’accesso a uno dei mercati più grandi del mondo.
«È inquietante che così tante aziende americane si stiano rivoltando contro i valori americani per rimanere nelle grazie del Partito Comunista Cinese», ha detto Michael McCaul, il principale legislatore repubblicano nella commissione per gli affari esteri della Camera al Congresso. «Basta guardare le aziende che sponsorizzano le Olimpiadi e si rifiutano di parlare per i diritti umani. Non possiamo permettere che queste aziende aiutino a coprire il genocidio». La critica di McCaul si può ritrovare nelle dichiarazioni di molti membri del Congresso americano.
È per questo che ieri il Financial Times ha pubblicato un lungo articolo per spiegare che queste Olimpiadi stanno diventando – in maniera simbolica, ma non solo – una nuova linea di conflitto nel nuovo fronte della Guerra Fredda tra Cina e Stati Uniti.
«Il presidente americano Joe Biden, la cui amministrazione boicotterà i Giochi di Pechino, ha preso una posizione più dura di quanto molti si aspettassero nei confronti della Cina, su tutto: dalla repressione degli uiguri alla repressione della libertà a Hong Kong. Ha anche implementato misure che rendono più difficile per Pechino ottenere tecnologie statunitensi sensibili come i semiconduttori. Il suo omologo cinese, Xi Jinping, non ha mostrato alcuna apertura alle richieste degli Stati Uniti su dossier delicati come quello di Taiwan», si legge sul quotidiano britannico.
Alcuni esempi pratici aiutano a capire il comportamento delle aziende americane: Intel, produttore di semiconduttori, si è scusato con i clienti cinesi a dicembre per aver dichiarato di non poter reperire componenti dallo Xinjiang, a causa di una nuova legge statunitense che richiede alle aziende di dimostrare che le importazioni dalla regione nord-occidentale della Cina non vengono effettuate con il lavoro forzato.
Mentre nel 2021 alcune multinazionali, tra cui Nike e H&M, hanno rimosso dai loro siti web le frasi che si opponevano al lavoro forzato nello Xinjiang. Lo hanno fatto dopo che Pechino aveva orchestrato un boicottaggio da parte dei consumatori per colpire proprio questi brand.
«In generale, le multinazionali stanno subendo molte pressioni – scrive il Financial Times – a causa delle misure prese dagli Stati Uniti in nome della sicurezza nazionale. Quindi prestano maggiore attenzione alle loro esportazioni in Cina e agli investimenti nel Paese: il governo continua ad aggiungere soggetti cinesi agli elenchi di divieti di esportazione e investimento».
Ma ovviamente non può bastare. Sophie Richardson di Human Rights Watch spiega che le aziende non si possono più definire serie e impegnate in materia di governance ambientale, sociale e aziendale (Esg) se tacciono sullo Xinjiang: «Nessuna azienda può parlare in modo credibile sugli Esg quando rimane in silenzio di fronte al secondo governo più potente del mondo che commette crimini contro l’umanità. Le Olimpiadi sono solo un altro esempio di persone che scelgono chiaramente di fare soldi piuttosto che capire come usare il loro potere per migliorare la situazione».
Alcune delle aziende che sponsorizzano i Giochi erano già state criticate nel 2008 per le Olimpiadi di Pechino. Ma la portata della persecuzione nello Xinjiang, dove negli ultimi anni oltre 1 milione di uiguri sono stati detenuti nei campi, cambia tutti i parametri.
In più, adesso il giro d’affari per le aziende è molto più grande, grazie alla crescita del mercato cinese. E le aziende devono anche avere a che fare con i consumatori di entrambe le nazioni a causa del dialogo diretto e ininterrotto dovuto ai social media.
Rick Burton, professore di management sportivo alla Syracuse University, che è stato chief marketing officer per il Comitato Olimpico degli Stati Uniti ai Giochi del 2008, ha detto al Financial Times che gli sponsor sapevano che sarebbero stati messi sotto pressione nelle settimane precedenti i Giochi del 2022. Ma adesso, aggiunge, stanno affrontando una tempesta perfetta, poiché le restrizioni sulla pandemia e un calendario sportivo super ingolfato negli Stati Uniti a febbraio minacciano di rubargli spettatori, quindi visibilità. «Gli sponsor stanno davvero solo tentando di resistere e arrivare alla fine dei Giochi», dice Burton.
E non è finita qui. Anche se tutti gli sponsor prendessero una posizione pubblica contro la Cina, l’eventuale protesta avrebbe un impatto molto limitato sul Comitato Olimpico Internazionale.
Il Cio negli ultimi mesi ha difeso a spada tratta la sua scelta di portare le Olimpiadi a Pechino. Lo si è visto anche con il caso di Peng Shuai, tennista cinese che era sparita social media nazionali dopo aver dichiarato pubblicamene di essere stata aggredita sessualmente da un alto funzionario del partito comunista cinese: qualche giorno dopo l’esplosione del caso, il Cio aveva fatto sapere di aver dialogato con Peng Shuai, dichiarandola «al sicuro e in buona salute».
La scorsa settimana il presidente del Cio, Thomas Bach, ha incontrato pubblicamente il presidente cinese Xi Jinping a Pechino, e nella dichiarazione congiunta diffusa dopo il vertice c’è scritto: «I due leader hanno discusso del forte sostegno della comunità internazionale per i Giochi Olimpici Invernali di Pechino 2022».
Va ricordato che nella mission del Cio c’è scritto chiaramente di voler costruire un «mondo pacifico e migliore» e che l’organizzazione predica la neutralità politica. Solo che nella storia l’istituzione ha fatto politica un po’ a piacimento, ad esempio vietando la partecipazione del Sud Africa ai Giochi del 1964 a causa dell’apartheid.
In qualche modo, il silenzio del Comitato sul tema dei diritti umani in Cina, sta spostando la pressione dell’opinione pubblica internazionale sugli sponsor olimpici e sugli atleti, chiamati a combattere questa battaglia senza il supporto dell’istituzione più importante. Ma anche in un’epoca di player empowerment, casi così grandi – sotto tutti i punti di vista – rendono gli atleti inermi, indifesi di fronte al gigante cinese.
«Gli atleti sono stati coinvolti in una bega geopolitica», scrive Axios nella sua newsletter sulla Cina, indicando il coinvolgimento di sciatori e pattinatori in una questione forse troppo grande per loro. «Alcuni sportivi sono stati minacciati di sanzioni e punizioni per aver fatto dichiarazioni contro il Partito Comunista Cinese».
L’articolo di Axios, infine, individua nello spirito di sopravvivenza – a livello economico – la causa delle mancate denunce da parte del Cio: «Il silenzio è dovuto in parte alla crescente dipendenza delle Olimpiadi dai portafogli dei governi autoritari. Ospitare i Giochi è diventato proibitivo nel corso degli anni, inclusa la costruzione (e quindi il mantenimento) di strutture di dimensioni olimpiche. Mantenere buoni rapporti di lavoro con i governi autoritari aiuta il Cio a garantire il futuro del suo principale motore di entrate, i Giochi Olimpici, provvedendo così al proprio futuro».