L’elezione del Presidente della Repubblica è stata un giro di boa non solo per questa strana legislatura, ma anche per un sistema politico immerso da decenni in una transizione infinita. E non poteva essere altrimenti. Coalizioni politiche tenute insieme solo dall’ansia da prestazione elettorale, e non da valori e programmi, si stanno sciogliendo o ripensando. Il Re di un assetto istituzionale che non funziona è di nuovo nudo, e dopo il taglio orizzontale dei parlamentari (tanto populista quanto sbagliato) si dovrà mettere mano a riforme perlomeno regolamentari e a una nuova legge elettorale. Le leggi elettorali, da sole, non cambiano la politica. Ma hanno effetti di cui la politica deve tenere conto. Ragioniamone con ordine.
Quale legge elettorale
lI sistema elettorale perfetto non esiste e, soprattutto, non ha senso parlare di sistemi “puri”, maggioritario e proporzionale l’uno contro l’altro armati, in una discussione tutta ideologica che nasconde la realtà. Perché esistono tante varianti di sistemi maggioritari. E perché tutti i sistemi proporzionali hanno elementi di “disproporzionalità”, che li allontanano o avvicinano da effetti tendenzialmente maggioritari.
Non ha senso, inoltre, parlarne in astratto, citando esempi del passato o di altri paesi. Come ci ha insegnato Giovanni Sartori, gli effetti dei sistemi elettorali non devono essere valutati in vitro ma sulla base del contesto in cui si calano, partendo dal “livello di strutturazione” del sistema dei partiti e dalla “dispersione geografica” delle preferenze elettorali.
È per questo che Sartori aveva previsto che la parte maggioritaria dei sistemi misti che abbiamo adottato dal Mattarellum in poi avrebbe dato un potere di ricatto ai partitini (“proporzionalizzando” il maggioritario) e creato coalizioni raccogliticce, instabili e incapaci di governare. Vogliamo continuare così, a maggior ragione ora che ci ritroviamo con partiti sempre meno radicati e di carta? Errare è umano, perseverare un po’ meno.
Se mi chiedete la mia opinione, io continuo a pensare che all’Italia servirebbe un Parlamento monocamerale (con 600 parlamentari) e un sistema maggioritario a doppio turno (con collegi uninominali). Ma le querce non fanno limoni. E la probabilità che il nostro sistema politico produca questa riforma in un anno è vicina allo zero.
C’è qualche probabilità, invece, di arrivare a un proporzionale disegnato decentemente, con elementi di disproporzionalità che limitino la frammentazione. Penso a una soglia di sbarramento al 5%, ma anche questo dibattito rischia di essere astratto se non si lega al taglio dei parlamentari e alla dimensione dei collegi elettorali. Anche col proporzionale, collegi piccoli (che eleggono pochi parlamentari) producono effetti maggioritari. Insomma, gli elementi di disproporzionalità della legge elettorale (proporzionale) che ora ci serve dovrebbero arrivare da soglie di sbarramento o da piccoli collegi plurinominali, piuttosto che da premi di maggioranza alle coalizioni o roba del genere, che reintrodurrebbero dalla finestra l’incentivo a formare armate Brancaleone senza progetti. Io la penso così.
Quale Partito democratico
Ma veniamo alla politica. La legge elettorale, come detto, non fa miracoli. Ma ha conseguenze che sarebbe suicida ignorare. Dobbiamo capire che il passaggio a una legge proporzionale, anche se corretta, rappresenta una sfida esistenziale per il Pd. Chi vuole collegi uninominali a turno unico o premi di maggioranza alle coalizioni, fa bene a difendere l’idea di un “Pd perno”, baricentro di un campo largo alternativo alla destra di Salvini e Meloni.
È così che il Pd ha sempre svolto la sua funzione, dando equilibrio a coalizioni eterogenee e provando a dare stabilità a un sistema politico frammentato. Non c’è niente di male, è stata una funzione meritoria. Ma è stata anche un alibi. Perché se fai il perno di altri non devi dire chi sei, e puoi viverti per giustapposizione di componenti interne (ex democristiani, ex diessini, riformisti, sinistra radicale, e via snocciolando, qualsiasi cosa significhino queste sotto-identità parziali).
Col proporzionale, presentarti come il perno di qualcosa di più ampio non basta a darti non dico un’identità – perché questo non l’ha mai fatto – ma almeno una funzione. Non solo. Le spinte centrifughe rischiano di diventare incontrollabili, se ti presenti per giustapposizione di componenti e non per valorizzazione di un’identità forte, autonoma e riconoscibile. Perché devo stare in una componente ecologista se c’è un partito ecologista? Perché devo stare in una componente riformista se c’è un partito che si dice riformista? E, di nuovo, via snocciolando.
Pensate alle nostre discussioni interne: risentono tutte della teoria del Pd perno. Litighiamo se ci dobbiamo alleare o no con i 5 Stelle. Litighiamo su che rapporto avere con Renzi e Calenda. Litighiamo su come allargare il campo largo: a sinistra o verso il centro? Non litighiamo su come aumentare i salari dei giovani. Su come liberare le energie delle donne redistribuendo i carichi di cura all’interno delle famiglie. Su come permettere a tutti di inseguire i propri progetti di vita e di felicità, al di là di età, sesso e condizioni (familiari o territoriali) di partenza. Su come far sì che transizione digitale e verde non restino formule distanti dalla vita delle persone, ma generino una nuova dignità e sicurezza del lavoro in tutte le aree del Paese.
Non litighiamo, insomma, su un’idea di futuro per cui abbia senso battersi e chiamare all’impegno politico. Finendo col chiamare all’impegno politico solo chi vive la politica come gossip (“ti sta più simpatico Conte o Di Maio?”) o lotta tra opposte tifoserie (“è tutta colpa di Renzi?”). Ma la politica è un’altra roba. Per carità: la politica è sangue e merda, per dirla con Rino Formica. Ma sangue e merda per un fine ultimo; impegno per gli altri e con gli altri.
Ecco perché dobbiamo passare dalla visione di un Pd perno a quella di un “Pd largo” (sì, altro che campo largo, col proporzionale serve un Pd largo). Un partito di massa che mobilita all’impegno politico intorno a un’idea di futuro. È la strada che abbiamo iniziato con le Agorà democratiche volute da Enrico Letta. Ora dobbiamo mettere quegli stimoli dentro una forma partito e una cultura politica che diano il senso di un’identità forte, autonoma e riconoscibile.
In questo manifesto sul bisogno di una “rivoluzione riformista” ho provato a dire perché questa identità non può non dirsi socialista, e perché dovrebbe avere i tratti di un riformismo radicale. È solo uno spunto. Ma parliamone. Meno gossip e coalizioni, più valori e progetti.
Lo so: è difficile. Richiede il coraggio di navigare in mare aperto. Richiede la capacità di correre dei rischi. Richiede la consapevolezza che il partito largo che dobbiamo costruire sarà gestito da una nuova classe dirigente rispetto a quella che avvia la navigazione. Richiede, insomma, un bel po’ di generosità. Ma abbiamo alternative? Coraggio!