Il terrore di Putin Delitti e misfatti di un dittatore che ha trasformato la Russia nel suo show personale

Mosca sfrutta una narrazione storica falsa e crea un pretesto per invadere l’Ucraina. È la trama del one man show condotto dal capo del Cremlino: in un Paese andato ormai oltre l’autoritarismo non esiste opposizione, non c’è dibattito politico e nemmeno gli oligarchi e l’élite hanno un vero peso sulle decisioni del leader

AP/Lapresse

Vladimir Putin è seduto alla sua scrivania in una sala enorme, di fronte a lui, a diversi metri di distanza, ci sono ministri, consiglieri, rappresentanti dei servizi segreti. Putin parla risoluto e interroga, gli altri balbettano, tremano, sembra che non sappiano cosa rispondere. Anche un falco come Sergey Naryshkin, direttore dei servizi d’intelligence esterni, sembra in preda al terrore. Un senso di impotenza da parte di tutti meno uno.

Il Consiglio di sicurezza della Federazione russa restituisce l’immagine di una Russia costruita, rappresentata, guidata solo e unicamente da Vladimir Putin. «Il capo del Cremlino usa questi momenti, che dovrebbero essere riservati, anche per fare propaganda, per dimostrare che lui è l’uomo forte e gli altri sono lì solo per dargli ragione», dice a Linkiesta Anna Zafesova, giornalista esperta di Russia e autrice del libro “Navalny contro Putin”. «Non c’è contraddittorio, non c’è confronto, e se c’è non emerge mai».

Poco dopo quella riunione del Consiglio di sicurezza, Putin ha annunciato pubblicamente di riconoscere l’indipendenza delle repubbliche separatiste ucraine a Donetsk e Lugansk. Un riconoscimento che serve solo a fornire alla Russia un pretesto per varcare il confine ucraino e occupare i territori fino alla cosiddetta linea di contatto. A quel punto, la crisi è precipitata.

La risposta del mondo occidentale è arrivata qualche ora dopo. I leader di Unione europea, del Regno Unito e degli Stati Uniti si sono riuniti per stabilire nuove sanzioni da imporre a Mosca e hanno organizzato una riunione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

Martedì la Nato ha dichiarato di essere pronta a sedersi al tavolo e parlare con la Russia e ha specificato che a causa dell’invasione dei mezzi militari russi nel Donbass «sono stati messi in allerta 100 jet e oltre 120 navi».

Ma in ogni caso la risposta di Bruxelles e dell’Alleanza atlantica non sembra preoccupare l’autocrate russo: Putin continua a raccontare verità tutte sue, a dare la sua versione della storia, guardando soprattutto alle questioni interne al suo Paese.

Nel suo discorso, il leader del Cremlino ha dichiarato che gli accordi di Minsk che dovevano portare a una pace duratura in Ucraina «non esistono più», ha spiegato che la Russia sostiene il diritto dei separatisti su «tutto il Donbass» e che l’ingresso delle truppe in Ucraina «dipenderà dalla situazione sul terreno».

Per Putin, l’Ucraina è il giardino di casa. Lo ha dimostrato dicendo che il Paese vicino «non ha mai avuto una tradizione stabile come nazione a se stante». Una dichiarazione – falsa – che riprende diversi discorsi pronunciati in passato e anche un brano del suo saggio “Sull’unità storica dei russi e degli ucraini”, pubblicato lo scorso luglio, in cui sosteneva che russi e ucraini sono un solo popolo.

«La guerra non la vuole nessuno, ma molti russi potrebbero condividere il discorso imperialista di Putin: per qualcuno lo scioglimento dell’Unione sovietica è stato un errore e l’Ucraina davvero non ha una dimensione statale vera e propria. È una consapevolezza creata ad arte dalla propaganda putiniana, ma di certo il discorso del leader del Cremlino incontra la sensibilità di molti russi», spiega Anna Zafesova.

Il bagno di folla con cui lo scorso 18 marzo i russi accolsero Putin allo stadio Luzhniki di Mosca, in occasione del settimo anniversario della annessione della Crimea, dimostra che l’opera di revisionismo del Cremlino ha fatto proseliti in patria.

Negli anni, Putin ha reso la Russia il palco del suo personalissimo one man show, in cui non c’è spazio per le voci fuori dal coro. Gli oppositori politici sono tutti in carcere o in esilio, quelli ancora vivi. E non esiste megafono abbastanza forte che possa far sentire la loro voce. Ne è una prova il fatto che una settimana fa sia iniziato un nuovo processo contro l’attivista dell’opposizione russa Alexei Navalny – rischia altri dieci anni di carcere – ma la notizia viene costantemente coperta dal rumore della guerra al confine.

Nella Russia degli anni ‘20, le sanzioni in arrivo dall’Occidente possono pesare su un’economia che non gode di buona salute, ma è difficile intuire che impatto possano avere in termini di deterrenza e di decisioni politiche.

I legami economici con l’Europa sono chiaramente determinanti. L’Unione europea acquista il 27% di tutte le esportazioni russe e di certo i nuovi accordi con la Cina non hanno ancora lo stesso peso: il gasdotto Power of Siberia che porterà gas verso la Cina sarà completato solo nel 2025 e trasporterà un quinto di quello che oggi va in Europa.

Dal punto di vista politico, invece, «la logica delle sanzioni dovrebbe portare gli oligarchi a mettere pressione a Putin, solo che sono personaggi talmente succubi del suo autoritarismo che probabilmente non faranno granché per spostare gli equilibri», dice Anna Zafesova.

In effetti l’invasione del Donbass ha danneggiato l’élite economica russa, lo si è visto sui tabelloni della Borsa di lunedì e martedì, con i titoli russi che hanno perso il 20%. «Ma chi ci perde – aggiunge Zafesova – non è un’oligarchia come quella che abbiamo conosciuto nella Russia di Yeltsin, non sono privati che hanno comprato parti dello Stato ma aziende statali dirette da uomini piazzati da Putin. È vero che quando la Borsa crolla si impoverisce quella cerchia ristretta di uomini di fiducia del capo, ma chi avrà il coraggio di opporsi con forza?».

L’élite economica, insomma, non ha voce in capitolo su un argomento come l’imperialismo putiniano.

Chi ha, o dovrebbe avere, peso anche in decisioni politiche delicate sono i siloviki – termine che indica i politici provenienti dagli apparati di sicurezza – cioè i principali consiglieri del leader del Cremlino. «Estremisti e nazionalisti, con un certo interesse ad alimentare le divisioni tra Russia e Occidente», li ha definiti così l’analista politica russa Tatiana Stanovaya su Foreign Policy.

È possibile che alcuni rappresentanti di questa ristretta cerchia non condividano alcune delle visioni e delle decisioni di Putin. Ma le immagini di Naryshkin – uno dei siloviki – al Consiglio di sicurezza spiegano quanto anche loro temano il confronto con l’uomo forte.

«Possiamo anche supporre che alcune delle figure più importanti vogliano disfarsi di Putin – dice Zafesova – ma nessuno ha idea di come fare, perché non ci sono proprio gli strumenti per una successione in un Paese in cui a mancare è prima di tutto la politica. Perfino nell’Unione Sovietica di Leonid Breznev il leader dialogava con il Politburo, negoziava con militari e altri apparati. Qui c’è un uomo solo al comando e tutti gli altri ad obbedire».

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