«Ero in Georgia, in una ex piantagione di schiavi, ora un bellissimo parco. C’era un palazzo e piccole capanne. E questo albero antico, una quercia americana. Davanti c’era un segno che era già vivo quando Colombo non era ancora al mondo. E ho pensato: sono pazzesche le cose terribili che noi umani facciamo. Uccidiamo, schiavizziamo, opprimiamo persone e animali, e quest’albero se ne stava lì non toccato da niente. Poi ho pensato: i veri vecchi e grandi sono gli alberi. Voglio conoscerli».
È nata in questo modo l’idea dell’architetto Zora del Buono di scrivere “Vite di alberi straordinari”, viaggio tra le piante più antiche del mondo, pubblicato in Italia da Aboca. Animata da un profondo desiderio di scoperta l’autrice ha viaggiato per un anno tra Europa e America del Nord per visitare gli alberi secolari, di fronte alla cui longevità l’uomo scompare. Li ha immortalati con la sua Rolleiflex analogica e raccolto aneddoti e storie. Quattordici alberi in totale, dal Tasso di Ankerwycke al Tiglio di Schenklengsfeld, che hanno finito per cambiarle la visione di ciò che ci circonda: «C’è un mondo che non ha bisogno di noi» – ha detto del Buono – «ma dobbiamo proteggerlo perché non può difendersi da solo. Così da un lato sono diventata più umile, dall’altro più depressa, perché ho visto quanto può essere distrutto velocemente un albero che ha vissuto migliaia di anni».
Ed è lì che è scattata una domanda più grande: come sarà il futuro degli alberi? Si parla sempre più di sostenibilità, ma ancora troppo poco si fa per proteggerli: «In Germania – spiega del Buono – è tragico, molti alberi stanno morendo a causa del cambiamento climatico. La maggior parte degli alberi che ho visitato sono in pericolo. Con il riscaldamento globale, la vegetazione cambierà, arriveranno organismi e piccoli animali che danneggeranno molte piante che non sopravvivranno. Un minore consumo aiuterebbe. E poi riforestare. Credo si possa proteggere solo ciò che si ama e si conosce. Perciò dobbiamo iniziare dal nostro piccolo».
Angel Oak
Quercia viva, o Leccio della Virginia, tra i 500 e i 1500 anni, alto più di 20 metri, «magico e intricato». Ha foglie coriacee e oblunghe, «lucide sulla pagina superiore, ricoperte di peluria bianca e feltrosa su quella inferiore». Il finale della storia di questo albero, che ora si può vedere solo fino alle cinque del pomeriggio, prima che il custode ne chiuda attorno i cancelli, del Buono lo racconta con un detto popolare: “Per salvare tutto l’albero devi prenderti cura delle radici” e le radici di questo albero raccontano tanto soprattutto di schiavismo, ma anche di uno dei pochi luoghi dove bianchi e neri potevano riunirsi, stare insieme, ballare il charleston.
Generale Sherman
È l’albero che ha plasmato di più l’autrice: si tratta di una sequoia di 2200 anni alta 83 metri, per una circonferenza di oltre 25 metri, che si trova in California. «Le sue dimensioni sono così imponenti che mi hanno tolto il fiato. L’unica esperienza metafisica mi è capitata li, probabilmente l’unica nella mia vita. C’era un temporale, ero tutta sola lì tra questi alberi millenari e ho sentito una specie di voce dal cielo, non vocale, più olistica, una voce del mio defunto padre, che non conoscevo affatto perché ero piccola quando è morto. C’era improvvisamente una connessione con qualcosa di più grande». Il nome ufficiale di Generale arriva nel 1897, con una targa affissa sul tronco.
Hiroshima Survivor
Su questo albero vige un divieto: non si può toccare, scatenando ovviamente i più profondi istinti di trasgressione. È un pino bianco del Giappone. Un giovincello di appena 390 anni alto 117 centimetri e si trova nell’arboreto di Washington. Un bonsai, il cui termine si compone di «bon, ovvero la scodella piatta, e sai l’albero piantato». Su di lui ha vegliato a lungo una persona dal mattino alla sera: Jack Sustic, il cui interesse per i bonsai inizia a metà anni ’80 durante il servizio nell’esercito in Corea del Sud. Nel 1996 viene selezionato come primo stagista al National Bonsai & Penjing Museum e poi al National Arboretum di Washington, dove diventa curatore dal 2002 al 2016 con l’avallo di Saburo Kato, «il maestro bonsai più autorevole del Giappone», che a sua volta nel 1974 costituì una collezione di 53 piante donate a privati americani. Già solo queste due storie nella storia meriterebbero un libro a parte.
Castagno dei Cento cavalli
Il nome deriva da una leggenda: è una notte di tempesta e cento cavalieri «insieme ai loro cavalli trovarono riparo sotto questo gigantesco albero, che pare sia il più grosso al mondo, o almeno quello che ha il tronco più grosso». L’età si aggira tra i 2000 e i 4000 anni, l’altezza è di 22 metri e la circonferenza di quasi 58 (misurata l’ultima volta nel 1780). La circonferenza dei tre cormi oggi è di 13, 20 e 21 metri e il castagno si trova a Sant’Alfio, Parco dell’Etna, Catania. Menzionato per la prima volta in un documento del 1611, ha una chioma ampia e maestosa, con un fogliame avvolgente, tra i più vecchi alberi da frutto al mondo, ma la cosa che più affascina di questo castagno, secondo del Buono, è «che si compone di tante fratture, è che si tratta di un essere vivente in continuo cambiamento, un work in progress».
Pando
Ultimo di questa piccola selezione è il Pando, un «albero che oltrepassa la nostra dimensione, quella temporale e quella spaziale, e perfino la nostra immaginazione fatica a comprendere la natura di questo organismo». Si tratta di un pioppo tremulo americano di più di 80mila anni. Superficie: 44 ettari. Peso: 6 milioni di chilogrammi. Cormi: 47mila. È l’essere più antico della terra, con una corteccia bianca, un corpo esile, foglie triangolari-ovate, con un picciolo lungo e mobile. L’unico organismo con una superficie più estesa è un’armillaria, un fungo a nordest dell’Oregon. Un intervallo di incendi ne ha favorito nel tempo la longevità, alleggerendolo da conifere infestanti, ma ora le sue condizioni stanno peggiorando a causa del cambiamento climatico. E purtroppo non è il solo, ragione in più per riflettere sul cambiamento climatico e sulle sue conseguenze.