Imprenditori Il successo è una scelta scomoda

Fare ristorazione giapponese di altissimo livello, sbaragliando la concorrenza e diventando un riferimento, in una città come Milano, non è uno scherzo per un ragazzo di origini cinesi arrivato in città controvoglia

«Se mi guardo indietro vedo tanto lavoro, tanti sogni, ma anche tanti traguardi raggiunti nel corso degli anni».
Inizia così una lunga conversazione con Claudio Liu, imprenditore della ristorazione di origini cinesi, che per Milano è un vero e proprio riferimento, grazie alla sua tenacia e alla sua intraprendenza, che l’ha portato in poco più di vent’anni ad essere alla guida di due ristoranti gastronomici tra i più quotati in città e uno dei catering giapponesi più buoni e reputati per servizio, gusto ed efficienza.

Ma se oggi, tanto impegno e lavoro a parte, le cose sono consolidate, la partenza non è stata facile: «Mi ricordo molto bene quando mi sono trasferito a Milano da Reggio Emilia. Era il 2003 e io avrei voluto rimanere dov’ero, perché là c’erano tutti i miei affetti. Mio padre è stato irremovibile, mi ha chiesto di trasferirmi: io mi sono opposto fortemente ma alla fine ho dovuto cedere, e mi ricordo che quando ci trasferimmo a Milano ci appoggiamo in una casa affittata da un suo amico. Una notte, nell’immaginare che cosa sarebbe successo e dove avrebbe portato questa nuova avventura, ho “visto”quello che ho adesso. Ma era solo un sogno allora! Mio padre è nel settore dagli anni ’80, faceva già ristorazione. Una base già l’avevo, ma l’esperienza personale matura col tempo».

E oggi quel sogno così reale non ha lasciato il posto a una tranquillità autentica: nelle parole e nell’atteggiamento Claudio Liu rimane agguerrito e affamato, con il bisogno costante di andare un passo oltre il traguardo già raggiunto. Con quella tenacia che solo chi ha sognato intensamente è in grado di avere. Perché fare ristorazione giapponese di altissimo livello, sbaragliando la concorrenza e diventando un riferimento, in una città come Milano, non è uno scherzo per un ragazzo di origini cinesi arrivato a Milano controvoglia: «Non ho mai fatto ristorazione cinese e non ho un termine di paragone: non so cosa vorrebbe dire fare la cucina del nostro Paese. Mia sorella (l’imprenditrice Giulia Liu, anche lei un riferimento Milanese con il suo Gong) e io nel 2003 abbiamo lavorato in ristorante italiano fino al 2007 e poi abbiamo costruito la nostra carriera. Quando ho iniziato con Iyo ho immaginato una cucina di ispirazione giapponese, anche se la strada era in salita: le persone associano le tue origini alla tua tipologia di cucina. Invece finora non ho mai aperto un ristorante cinese, anche se non lo escludo: la cucina cinese sta cambiando, tanti giovani stanno facendo studi importanti per rivitalizzarla. E andando avanti rispetto alla tradizione la prospettiva è molto interessante, con l’ispirazione che viene sempre più dal mondo. In fondo quella cinese è una delle cucine che hanno influenzato interi continenti!».

Oggi, a 39 anni, Liu non ha smesso di guardare avanti: «Io continuo a sognare, perché questo lavoro mi appassiona e ogni anno c’è la voglia di fare qualcosa in più per migliorarsi. Sono ancora giovane e quelli che ho davanti sono gli anni da cogliere» dice con la consapevolezza della maturità e il coraggio dell’intraprendenza. E in una città che l’ha temprato ma accolto, lo spazio per lui sembra esserci ancora: «Milano ci ha accolti benissimo, anche se è una città molto severa sa essere estremamente generosa. Può sembrare chiusa, all’inizio, ma una volta capito il meccanismo che la regola è unica. Milano è una delle città che devo ringraziare: ci ha forgiati, ci ha fatti crescere e ci ha insegnato molto. Fare gli imprenditori qui è come lavorare a livello internazionale: si avvicina sempre di più alle capitali del mondo. Prima della pandemia stava esplodendo, ci sono state crescite importantissime fino al 2020. Ma sono certo che quello che stiamo vivendo è solo un rallentamento e presto si riprenderà, perché è una delle città trainanti dell’Europa».

Una città dalle dimensioni umane, che sul fronte della serialità è limitante, a meno che si colga questa come opportunità: «Su un mercato di fascia alta come il nostro, quando vengono aperte più realtà con la stessa tipologia di cucina una cannibalizza l’altra. I clienti sono portati a confrontare le qualità dei posti, questa potrebbe essere una scelta non costruttiva. Per questo abbiamo aperto locali differenti, e conoscendo da tanto il settore per avere una proposta interessante abbiamo cercato di intraprendere vie differenti, diversificando il mercato. Ogni locale è un figlio e mi piacciono tutti: sono tutte idee, sogni, nottate ad occhi aperti a immaginare che cosa fosse più giusto fare».

Anche l’ultimo nato, che porta a casa delle persone il sushi con uno dei delivery più accurate della città, è frutto di tante notti insonni: «Il nostro delivery è stato un progetto nato da una voglia di diversificare il mercato: c’era molta richiesta di take away nel nostro ristorante, ma la mole di lavoro per gestirlo era importante. Per gestirlo bene, però, dovevamo limitarlo in fasce orarie particolari e nonostante questo vedevamo che la richiesta era sempre molto forte. Ci siamo accorti che poteva esserci un mercato parallelo e con i ragazzi validi che da tanti tanti anni erano con noi e andavano incentivati per il loro impegno una sera ci siamo chiesti se potesse avere senso aprire un delivery. Dal giorno dopo siamo partiti ed è il progetto che abbiamo portato a terra l’anno seguente: è stato complesso standardizzare i processi di lavorazione, con un lavoro estremamente concentrato in un lasso di tempo ristretto. Abbiamo scelto di avere un delivery indipendente, perché non volevamo un partner ingombrante che ci dettasse le regole. Siamo autonomi al 100%: dall’e-commerce dalla gestione degli ordini fino alla logistica dei rider, abbiamo una flotta di 15 veicoli tutti elettrici, ragazzi assunti con contratto, e usufruendo della business intelligence – strumento fondamentale – abbiamo studiato un percorso ottimizzato per il flusso di consegne. Questa è stata di sicuro la parte più complicata: non veniamo dall’informatica, ci siamo affidati a degli ingegneri per districare meccanismi ingarbugliati e gestire il flusso di lavoro molto lungo. Solo dopo questo lavoro ho capito perché le app hanno questo valore enorme sul mercato: dietro a ogni tasto ci sono ore e ore di lavoro!»

L’aspetto che più di tutti colpisce di questo imprenditore? La capacità di fare impresa in un settore dove le aziende sono per la maggior parte medio-piccole e le realtà sono più che altro familiari. «Sono sempre stato convinto che riuscire a mantenere un livello alto se fai 80, 90 sedute a servizio è estremamente complicato, però è appagante e ti dà grandi soddisfazioni. La ristorazione è anche un’azienda non c’è da sottovalutare il numero di coperti e il fatturato. Insomma, i nostri, oltre ad essere dei ristoranti sono aziende e come tali vanno pensati.
Stimo tantissimo i colleghi chef che fanno alta ristorazione ma sono dell’idea che se ci guardiamo intorno e usciamo dall’Italia troviamo ristoranti che macinano coperti pur mantenendo altissimo il livello. Dobbiamo riuscire ad ampliare i nostri orizzonti, dando valore a quello che abbiamo senza lasciare nulla al caso. La ristorazione non è fatta solo dell’esperienza gastronomica: i clienti che escono a cena sono tantissimi e hanno esigenze tutte diverse. Dobbiamo capire questa cosa per poter far diventare la nostra un’esperienza gastronomica che soddisfi tutti. Ambiente, servizio, atmosfera, musica, i comportamenti dei ragazzi in sala: è tutto determinante per il risultato finale. Magari non ti ricordi il piatto che hai mangiato, ma di sicuro ti ricordi del sorriso con cui te l’hanno servito».

E torni, portando gli amici.

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