Ci sono i danni fisici: miopia, obesità, ipertensione, disturbi muscolo-scheletrici, diabete. E ci sono i danni psicologici: dipendenza, alienazione, depressione, irascibilità, aggressività, insonnia. Ma a preoccupare di più è la progressiva perdita di facoltà mentali essenziali, le facoltà che per millenni hanno rappresentato quella che sommariamente chiamiamo intelligenza: la capacità di concentrazione, la memoria, lo spirito critico, l’adattabilità… Sono gli effetti che l’uso, che nella maggior parte dei casi non può che degenerare in abuso, di smartphonee videogiochi produce sui più giovani. Niente di diverso dalla cocaina. Stesse, identiche, implicazioni chimiche, neurologiche, biologiche e psicologiche, segnali di malessere che si aggravano anno dopo anno, spaventosamente accresciuti dalle conseguenze delle restrizioni e dei lockdown dovuti al Covid-19. Una pandemia nella pandemia.
A sostenerlo non è un manipolo di luddisti invasati, ma la quasi totalità dei neurologi, degli psichiatri, degli psicologi, dei pedagogisti, degli antropologi, dei grafologi e degli appartenenti alle forze dell’ordine ascoltati dalla commissione Istruzione del Senato nell’ambito dell’indagine conoscitiva che ho promosso intitolata Impatto del digitale sugli studenti, con particolare riferimento ai processi di apprendimento. Titolo noioso, svolgimento mozzafiato. Il bollo della Scienza su un atto parlamentare, affinché nessuno possa dire un giorno: «Io non sapevo».
Ciascun genitore si è posto almeno una volta il problema, ciascun genitore se lo è poi lasciato scivolare addosso. Così fan tutti, cosa posso farci io? I campanelli d’allarme per me furono due, ma ravvicinati nel tempo. Il primo lo conservo stampato nella memoria come una fotografia. Mia figlia Giulia, allora dodicenne, appoggiata allo stipite della porta del salotto che fissa intensamente il fratellino impegnato alla PlayStation. «Guardalo, sembra indemoniato», dice senza distogliere lo sguardo. Osservo, era vero.
Di lì a poco il campanello d’allarme si fece squillo di trombe. Fu quando lessi l’inchiesta che il “New York Times” pubblicò nel 2011 per rispondere a un quesito oggettivamente interessante e potenzialmente rivelatore: «Che rapporto hanno con il digitale i figli dei top manager alla guida dei colossi del Web?». La risposta è un atto d’accusa formidabile, la prova regina di una condanna senza appello. Nel chiuso delle loro ville californiane, i giganti della Rete impongono ai propri figli regole stringenti unite a divieti insormontabili e li mandano preferibilmente in una certa scuola della Silicon Valley dove di digitale non c’è nulla e la lavagna è col gessetto.
Chiedersi il perché e andare a fondo alla questione è stato prima l’istinto del giornalista, poi il dovere del legislatore. Lo spirito del padre è rimasto in disparte: niente emozioni. Solo fatti, dati oggettivi e il parere degli esperti.
C’è stato un tempo in cui, per capire come saremmo diventati noi italiani guardavamo alla Germania, poi alla Francia, poi, dal Secondo dopoguerra, agli Stati Uniti. Ora, per la prima volta nella storia, il nostro sguardo abbandona le nazioni occidentali per volgersi a Oriente. Corea del Sud, Cina, Giappone. Sono questi, oggi, i nostri modelli.
Modelli avanzatissimi già da anni quanto a diffusione della tecnologia digitale, perciò anticipatori degli effetti che il crescente uso di smartphone e videogiochi produrrà fatalmente sui nostri figli, sui nostri nipoti, sui nostri amici, su di noi e di conseguenza sulla società in cui viviamo.
I numeri impressionano. In Corea del Sud il 30% dei giovani tra i 10 e i 19 anni è classificato come «troppo dipendente» dal proprio telefonino: vengono disintossicati in 16 centri nati apposta per curare le patologie da Web. In Cina, i giovani “malati” sono 24 milioni. Quindici anni fa è sorto il primo centro di riabilitazione, naturalmente concepito con logica cinese: inquadramento militare, tute spersonalizzanti, lavori forzati, elettroshock, uso generoso di psicofarmaci. Un campo di concentramento. Da allora, di luoghi del genere ne sono sorti oltre 400. Una situazione talmente preoccupante da indurre le autorità cinesi a imporre per legge un limite stringente all’uso dei videogiochi per i minori di diciotto anni: massimo un’ora al giorno dal venerdì alla domenica. Totale, tre ore a settimana.
Analoga situazione in Giappone, dove per i casi più estremi è stato coniato un nome, hikikomori. Significa «stare in disparte». Sono giovani tra i 12 e i 25 anni che si sono completamente isolati dalla società. Non studiano, non lavorano, non socializzano. Vegetano chiusi nelle loro camerette perennemente connessi con qualcosa che non esiste nella realtà. Rappresentano la punta di un iceberg, gli estremi casi d’un fenomeno di massa. Gli hikikomori in Giappone sono circa un milione. Un milione di zombie. E guai a pensare che si tratti di stranezze tipicamente giapponesi. In Italia, si stima che nelle medesime condizioni si trovino almeno 100mila giovani.
Giovani come Luca, 25 anni, che sul blog di “Hikikomori Italia” l’ha messa così: «I giorni e la notte erano identici, dormivo quando avevo voglia, mangiavo quando avevo voglia. Ho perso tutti gli amici, lo schermo era uno stargate per un altro universo. Il tempo si dilatava quando cliccavo sulla tastiera e non volevo mai smettere. Quando dovevo lavarmi fremevo sotto la doccia per rimettermi a giocare. Ho passato così più di due anni giocando a World of Warcraft in totale isolamento…». Luca ne è uscito. Ai ragazzi che sottovalutano il problema dice: «L’unico consiglio che mi sento di darvi è: scappate da quel computer».
È la punta estrema, d’accordo, ma non è esagerato affermare che per ogni giovane ridotto nelle condizioni di Luca ce ne siano mille in condizioni già critiche. Lo dicono le statistiche, lo confermano gli esperti. Tutte le ricerche internazionali citate nel corso del nostro ciclo di audizioni giungono alla medesima conclusione: il digitale sta decerebrando le nuove generazioni, fenomeno destinato a connotare la classe dirigente di domani. Invocarne un uso “intelligente” appare, purtroppo, ingenuo. La tecnica non è mai neutra, in ogni epoca ha plasmato in una maniera precisa tanto gli individui quanto le società. Ma mai prima d’ora una rivoluzione tecnologica, quella digitale, aveva scatenato cambiamenti così profondi, su una scala così ampia e in così poco tempo.
Il motivo è evidente, lo smartphone, ormai, non è più uno strumento, ma è diventato un’appendice del nostro corpo. Un’appendice da cui, oltre a un’infinita gamma di funzioni, in larga parte dipendono l’autostima e l’identità delle persone, e in modo particolare degli adolescenti. In una parola, la loro (la nostra) felicità.
È per questo che risulta così difficile convincere i più giovani a farne a meno, a metterlo da parte almeno per un po’: per loro, privarsi dello smartphone è doloroso e assurdo quanto subire l’amputazione di un arto.
Usarlo incessantemente è dunque naturale. È naturale perché questo ci inducono a fare le continue sollecitazioni di algoritmi programmati apposta per adescarci e tenerci connessi il più a lungo possibile. È naturale perché a disconnettersi si percepisce la sgradevole impressione di essere “tagliati fuori”, esclusi, marginalizzati. È naturale anche e soprattutto perché essere connessi è irresistibilmente piacevole, dal momento che l’uso dello smartphone che ne fanno soprattutto i più giovani, social e videogiochi, favorisce il rilascio di dopamina, il neurotrasmettitore della sensazione di piacere. CocaWeb, appunto. Ansia, depressione, aggressività, isolamento sociale, delirio di onnipotenza, disturbi alimentari… non è un caso che i segni di disagio che oggi ci allarmano nei più giovani coincidano alla perfezione con i sintomi che da sempre caratterizzano chi è dipendente dalla cocaina.
Pensare che un bambino o un ragazzo possano fare un uso equilibrato del Web appare perciò irrealistico. Provate a dare a un cocainomane un chilo di cocaina, chiedetegli di assumerne non più di una striscia al giorno e vedete se ce la fa. Non ce la farà. E se d’improvviso gliela sequestrerete avrà gli stessi accessi d’ira e le stesse manifestazioni di isteria dei vostri figli quando, per punirli, gli togliete il telefonino o li private della consolle per i videogiochi.
Parlare di “dipendenza da Web” non è, dunque, un’esagerazione. E a dirla tutta non è neanche una novità. Il concetto è stato espresso con chiarezza dal World Happiness Report presentato nel 2019 alle Nazioni Unite. Uno dei suoi estensori, l’economista della Columbia University di New York, Jeffrey Sachs, l’ha messa così: «Dall’introduzione del primo iPhone in poi, abbiamo avuto un deterioramento misurabile nella felicità, soprattutto tra i giovani. Crescono le manifestazioni di ansia, stress, perdita di sonno, depressione. Peggiorano le interazioni sociali. Non è solo un problema giovanile, ma per quella generazione il tempo passato sugli schermi degli smartphone sta sostituendo il tempo di vita. Si può essere dipendenti da sostanze, ma c’è anche una dipendenza comportamentale le cui conseguenze sono altrettanto distruttive».
Non occorre essere dei retrogradi per denunciare il problema, basta avere il coraggio di guardare in faccia la realtà. Quel coraggio dimostrato dai tanti, tantissimi “pentiti del Web”. Così, alla rinfusa. Tim Berners-Lee, creatore del primo sito Web al mondo: «Il Web ha rovinato l’umanità invece di servirla… è arrivato a produrre un fenomeno che in larga scala è antiumano». Tim Kendall, ex direttore della monetizzazione di Facebook: «I nostri servizi stanno uccidendo le persone e le stanno spingendo a suicidarsi». Tristan Harris, ex dirigente di Google: «Squadre di ingegneri hackerano la psicologia delle persone per tenerle connesse e fargli fare quello che vogliono. Abbiamo creato un Frankenstein digitale incontrollabile». Sean Parker, creatore di Napster e primo presidente di Facebook: «Solo Dio sa i danni che i social network hanno creato al cervello dei nostri figli». E se lo dicono loro, c’è da credergli.
Così come c’è da credere a Jonah Peretti. Nonostante il nome da investigatore privato di Kansas City, il californiano Jonah Peretti è a suo modo un genio. È stato il più acuto, efficace e cinico psicologo delle masse sul Web e ne ha ricavato una fortuna. Cofondatore dell’“Huffington Post”, il meglio di sé lo ha dato col sito BuzzFeed, una fabbrica di emozioni in forma di storie spesso futili, confezionate apposta per dare immediata soddisfazione ai gusti, alle curiosità e agli umori della Rete. Con particolare cura per quelli più bassi. Dall’alto della sua indiscutibile esperienza, e forte di un’impresa stimata 850 milioni di dollari, Peretti l’ha messa così: «Il Web è dominato da psicopatici. I contenuti sono più virali se aiutano le persone ad esprimere appieno i loro disturbi di personalità». Il Web, dunque, come alimentatore sistematico di ogni disagio, di ogni eccesso, di ogni malessere.
Il monopolio della conoscenza, la diffusione sistematica di false credenze, la radicalizzazione delle idee, l’incoraggiamento ad assumere posizioni oppositive, la polarizzazione del dibattito pubblico, l’inquinamento dei processi democratici, la legittimazione di ogni manipolazione, la delegittimazione di ogni autorità, sono, tra gli altri, gli effetti più “politici” di questo strapotere globale concentrato, come mai era accaduto prima, in poche, pochissime mani. L’impatto sul tessuto economico dei singoli Stati è enorme, i benefici fiscali e occupazionali irrisori.
Se i governi nazionali e le autorità internazionali non hanno ancora dimostrato di voler prendere sul serio il problema, è legittimo ritenere che ciò dipenda anche dalla smisurata capacità lobbistica dei colossi del Web. Dalla loro capacità lobbistica e dal loro potenziale intimidatorio. Basta poco, infatti, per delegittimare un leader politico, un capo di Stato o un governo; basta riprogrammare un algoritmo, deviare i flussi delle informazioni, orientare le conversazioni sui social. Non a caso, un autore americano, Franklin Foer, ha identificato nei giganti del Web i «nuovi Poteri forti». Un potere gigantesco, un potere globale concentrato nelle mani di un pugno di uomini. Un potere che, grazie al sapiente uso degli algoritmi, determina la conoscenza globale e ne «collassa sistematicamente il valore», trasformandola in un flusso incessante di informazioni online su cui fare utili in condizioni di monopolio e, fino a oggi, grazie al recepimento di una fondamentale direttiva europea, senza la seccatura di dover pagare i relativi diritti a ogni singolo autore inopinatamente depredato. Informazioni preferibilmente false, perché come è stato acclarato dal Mit di Boston, si propagano sei volte più velocemente di quelle vere.
Le conseguenze di tale inerzia, infatti, sono simili a quelle di una guerra persa: il massacro (intellettuale) di intere generazioni, la strage (cerebrale) dei più giovani, la miseria (culturale) dei popoli. Un genocidio dolce esercitato su scala planetaria nell’indifferenza generale.
I genitori sono avvisati, insegnanti e ministri dell’Istruzione si spera comprendano. Si spera comprendano che non sarà il digitale a consentire ai nostri studenti di colmare il gravissimo gap formativo che da anni li caratterizza rispetto ai loro omologhi degli altri Paesi europei. È vero, semmai, il contrario. Come ha spiegato il neurologo tedesco Manfred Spitzer alla Commissione, tutte le ricerche scientifiche internazionali dimostrano che più la scuola e lo studio si digitalizzano, più calano sia le competenze degli studenti sia i loro redditi futuri. Non era mai successo prima.
Per la prima volta nella storia dell’umanità le nuove generazioni avranno un quoziente intellettivo più basso di quelle precedenti. La spiegazione è scientifica. Il cervello è un muscolo, la sua forza dipende dall’uso che se ne fa, e più ore si trascorrono allo smartphone o alla consolle di un videogioco, più il cervello si atrofizza. Più ore si trascorrono allo smartphone o alla consolle di un videogioco, più tempo si sottrae all’esperienza e/o alla formazione. Mediamente gli adolescenti italiani trascorrono così almeno quattro ore al giorno: due mesi di vita all’anno. Buttati.
Anche per questo la tendenza, che rischia di andare ben oltre la contingenza dei lockdown, di sostituire nelle scuole le lezioni in presenza con la didattica a distanza, la penna col mouse, la parola con l’immagine e la carta col monitor va necessariamente contrastata. O quantomeno governata con equilibrio e spirito critico. Investire le poche risorse pubbliche disponibili nella digitalizzazione dell’istruzione dopo aver constatato, in epoca Covid, il fallimento della Dad, sarebbe un paradosso. Un preoccupante segno di schizofrenia analogo a quelli riscontrati in tanti giovani dipendenti dal Web.
dalla prefazione di “Coca Web. Una generazione da salvare”, a cura di Andrea Cangini, Minerva edizioni, 2022, pagine 176, euro 15