x The Adecco Group

Una mappaDiritto alla disconnessione: come si stanno muovendo i Paesi europei?

Quasi tutti gli Stati membri dell’Ue hanno assimilato il lavoro da remoto e stanno provando a regolamentare i diversi aspetti di questa modalità. Ma ancora non c’è uniformità in materia legislativa per quanto riguarda la necessaria distinzione tra spazi di vita privata e attività lavorativa

(Unsplash)

Sono passati ormai due anni da quando il lavoro da remoto è diventato, per la prima volta e per davvero, una scelta obbligata, non più una semplice opzione alternativa. La prima fase della pandemia e i primi lockdown generalizzati avevano costretto molte persone, molti uffici e molte aziende, ad affidarsi a questo tipo di soluzione. L’emergenza ha dato una vigorosa spinta a un cambiamento radicale nel mondo del lavoro.

Ma una delle criticità principali rientra in quello che viene definito “diritto alla disconnessione”: essere liberi di rendersi irreperibili, evitare che vita privata e professionale si mescolino. Su questo, l’Europa si muove in ordine sparso, nonostante la Commissione Ue abbia presentato una proposta di direttiva per «disciplinare l’uso degli strumenti digitali», definire le «condizioni minime» per poter esercitare il proprio diritto alla disconnessione e mettere in atto «meccanismi per il trattamento delle denunce o delle violazioni».

Una mappa
In Europa ci sono Paesi che hanno sancito il diritto di spegnere lo smartphone e Paesi che hanno vietato le mail dei superiori oltre un certo orario, altri hanno solo suggerito delle regole di comportamento più o meno dettagliate.

L’Italia è uno dei Paesi in cui sembra più difficile creare in maniera formale e sostanziale una separazione netta fra vita privata e professionale.

Nel nostro Paese, il primo cenno normativo alla disconnessione è contenuto nella legge che disciplina il lavoro agile del 2017, che rimanda infatti ad “accordi tra le parti” per definire “tempi di riposo, nonché misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche”.

Con l’avvento della pandemia e l’esigenza di tutelare i lavoratori da remoto, nel maggio 2020 il Garante della Privacy ha invocato per la prima volta il diritto alla disconnessione, senza il quale – si legge – “si rischia di vanificare la necessaria distinzione tra spazi di vita privata e attività lavorativa”. Così il decreto numero 30 del 13 marzo 2021 è il primo a parlare esplicitamente di “diritto alla disconnessione dalle strumentazioni tecnologiche e dalle piattaforme informatiche”, per “per tutelare i tempi di riposo e la salute del lavoratore”. Fino al Protocollo nazionale sul lavoro in modalità agile, firmato da 26 tra organizzazione sindacali e datoriali. Nel protocollo si legge che, anche se lo smart working si caratterizza “per l’assenza di un preciso orario di lavoro”, è possibile organizzare “fasce orarie” e individuarne una “di disconnessione”, che va garantita adottando “specifiche misure tecniche e/o organizzative”.

Guardando al resto del continente, però, si nota come tra gli Stati membri dell’Unione Europea non ci sia uniformità di scelte. Si procede in ordine sparso.

Molto simile al caso italiano, la legge irlandese non prevede ancora il diritto alla disconnessione. Ma nel 2021 il governo ha emanato un “Codice di condotta” che dovrebbe fare da base per le contrattazioni e le regole aziendali. Serve per fissare alcuni principi e doveri di imprese e dipendenti. Le linee guida del codice somigliano quindi a una sorta di “etichetta” della disconnessione: i messaggi fuori dall’orario di lavoro non sono vietati, ma non dovrebbero essere la norma e dovrebbero avere un tono proporzionato all’urgenza; meglio ancora se si può programmare l’invio al giorno successivo.

Fino a poco tempo fa anche in Belgio c’era un vuoto legislativo paragonabile a quello italiano. A inizio febbraio 2022, però, il governo ha stabilito per i dipendenti pubblici il diritto di non rispondere più a mail, messaggi e telefonate fuori dal proprio orario di lavoro. A meno che non ci siano «circostanze eccezionali e impreviste che richiedano un’azione che non può attendere», ad esempio un dipendente che sta per andare in ferie e non può attendere il rientro dopo diversi giorni. Ma si tratta ovviamente di casi rari e limitati.

In Belgio i dipendenti pubblici sono circa 65mila, ma il governo ha già fatto capire di voler ampliare la norma anche al settore privato. L’idea di Bruxelles è che sia necessario tutelare la salute dei lavoratori, ma anche garantire loro il riposo affinché possano poi risultare più concentrati e produttivi nelle ore di lavoro.

Da novembre 2021, il Portogallo ha varato una legge che vieta di inviare mail e messaggi fuori dall’orario di lavoro, soprattutto quando è un superiore che deve inviarla ad altri dipendenti. Si tratta quindi di una tutela indiretta nei confronti dei lavoratori, un divieto top-down.

Una piccola eccezione è rappresentata dalla Francia, che aveva normato il diritto alla disconnessione ben prima della pandemia. La Loi du Travail era stata introdotta in Franca addirittura nel 2016. In realtà si tratta di una legge forse troppo limitata: riguarda solo le aziende con più di 50 dipendenti e non sono previste sanzioni specifiche.

Nei Paesi dove non è riconosciuto il diritto alla disconnessione, le imprese si muovono in totale autonomia, come accade ad esempio in Germania.

Il richiamo dell’Europa
È proprio per colmare questo vuoto legislativo – e questa asimmetria tra i vari Paesi – che l’Unione Europea si muove da oltre un anno.

Nella Risoluzione del 21 gennaio 2021, il Parlamento europeo ha chiesto agli Stati membri di «riconoscere il diritto alla disconnessione come fondamentale», perché inseparabile dai nuovi modelli di lavoro, indispensabile. Così l’Eurocamera ha spinto la Commissione a presentare una proposta di direttiva per «disciplinare l’uso degli strumenti digitali», definire le «condizioni minime» per poter esercitare il proprio diritto alla disconnessione e attivare «meccanismi per il trattamento delle denunce o delle violazioni».

Perché è vero che lo smart working ha salvato posti di lavoro e reso possibile a diverse aziende di sopravvivere alla crisi del Coronavirus, ma ha anche reso poco chiara la distinzione tra vita privata e vita professionale. E ancora troppe persone lavorano anche fuori dal proprio orario lavorativo.

«Chi lavora regolarmente in smart working – spiega l’Europarlamento – ha il doppio delle probabilità di lavorare più dell’orario massimo lavorativo stabilito dalla direttiva sull’orario di lavoro rispetto a coloro che non lo fanno. Lavorare e rimanere seduti di fronte a uno schermo troppo a lungo riduce la capacità di concentrazione, causa un sovraccarico cognitivo ed emotivo e può essere alla base di emicranie, affaticamento degli occhi, senso di affaticamento, deprivazione del sonno, ansia o burn out. Inoltre una posizione statica e dei movimenti ripetitivi possono provocare tensione muscolare e patologie muscolo-scheletriche, specialmente negli ambienti di lavoro che non rispettano gli standard ergonomici non fornendo per esempio sedie e scrivanie adeguate».

CONTINUA A LEGGERE MORNING FUTURE