Abbiamo molto altro di cui occuparci, tipo fermare la strage di anziani, vaccinare la popolazione adulta, reinventarci per evitare di precipitare senza paracadute una volta usciti dal tunnel COVID 19 e ripartire per non farci trovare impreparati quando arriverà la prossima pandemia. Eppure non possiamo far finta di niente di fronte a quello che sta succedendo in queste ore a cento chilometri da Mosca.
Alexei Navalny sta morendo in un gulag puntiniano, dopo essere scampato per miracolo al tentativo di assassinio con il veleno Novichok, e dopo essere tornato in patria per sfidare il satrapo del Cremlino. Putin lo ha fatto arrestare all’aeroporto di Mosca, facendo eseguire una sentenza farsa per un reato inventato dai suoi inquisitori, come ai bei tempi delle purghe. E ora lo sta uccidendo lentamente, negandogli le cure necessarie, nel disinteresse generale. Nel suo piccolo, Linkiesta se ne è occupata pubblicando la favolosa inchiesta giornalistica condotta da Navalny contro Putin, un romanzo avvincente e a suo modo divertente che fotografa il sistema di potere assoluto del Cremlino (la potete acquistare qui, sul Paper, non ve ne pentirete).
Come ha detto Joe Biden, Putin è un killer, un killer di civili nei Paesi sovrani dell’ex impero sovietico, un killer di suoi connazionali in patria, un killer dentro e fuori i confini della grande madre Russia, un killer di giornalisti, un killer di suoi oppositori politici.
Dopo l’evidente collusione trumpiana col Cremlino (è notizia di ieri che un funzionario del team Trump nel 2016 ha passato informazioni ai russi), Biden sta cominciando a prendere provvedimenti contro il Cremlino, con sanzioni, pressioni internazionali e inasprimento dell’atteggiamento Nato di fronte alle nuove manovre militari russe ai confini con l’Ucraina. Trump è stato il pupazzo di Putin, come aveva avvertito Hillary Clinton fin dai dibattiti presidenziali del 2016, ma ci sono anche forti responsabilità di Barack Obama, e in parte anche di George W. Bush, perché entrambi hanno consentito al Cremlino di invadere due Paesi europei, di annettersi un’intera regione dell’Ucraina, di finanziare gli estremismi di destra in giro per il mondo, di diffondere il caos, di interferire nei processi democratici e di manipolare l’opinione pubblica dell’Occidente, ancora oggi con la grande bufala del vaccino Sputnik.
Ci sono anche responsabilità nostre, italiane, in questa storia che iniziano in tempi lontani con Silvio Berlusconi, il quale però voleva portare Putin nella Nato non la Nato da Putin, e continuano con Giuseppe Conte, per fortuna disarcionato dicono da un complotto internazionale (evviva i complotti internazionali quando abbattono gli amici di Putin e di Trump), e con Luigi Di Maio, Manlio Di Stefano, incredibilmente ancora al loro posto di governo, fino a Matvej Salvinov e a una certa pubblicistica di destra sempre alla ricerca dell’uomo forte.
Da Berlusconi a Conte, solo Matteo Renzi ha avuto il coraggio da presidente del Consiglio di andare sul ponte Bolshoi Moskvorecki a rendere omaggio a Boris Nemtsov, l’oppositore di Putin ucciso barbaramente chissà da chi e a criticare al Forum di San Pietroburgo davanti a Putin le leggi russe discriminatorie verso le persone Lgbti.
Il problema adesso è che cosa fare per sventare l’assassinio di Navalny e come reagire nel malaugurato caso in cui il leader democratico non riesca a sopravvivere alla tortura putiniana. Le dichiarazioni della Casa Bianca, i tweet della Farnesina, le minacce della Nato sono una bella cosa, coraggiosa e giusta, ma finora hanno solo fatto il solletico a Putin. Se Navalny muore, ha scritto ieri il New York Times, sappiamo già chi è il responsabile e crediamo che dovrà pagare un conto molto alto. Come far pagare il conto a Putin è un’altra questione per ora senza soluzione, specie in questi tempi di crisi pandemica, ma sarà il cuore del dibattito occidentale nelle prossime settimane.