La guerra in Ucraina sembra purtroppo destinata a crescere d’intensità, almeno nell’immediato, e così le tensioni internazionali e la minaccia nei confronti dei Paesi occidentali, Italia compresa. Allo stesso tempo, come se non bastasse, organizzazioni internazionali ed esperti continuano a metterci in guardia dalla probabilità di nuove varianti e conseguenti nuove ondate del Covid.
Se appena tre anni fa ci avessero detto che un giorno avremmo preso in considerazione il rischio di ritrovarci contemporaneamente nel pieno di una pandemia e di una guerra mondiale combattuta con armi atomiche, anche solo come ipotesi di scuola, ci saremmo messi a ridere. Oggi abbiamo mille ragioni per pensare che un simile scenario resti comunque inverosimile, ma non viene da ridere a nessuno.
Tutto è cambiato e inevitabilmente cambiano anche i termini di antiche discussioni intorno al ruolo e alla responsabilità dei mezzi di informazione, ora che al centro della discussione stanno minacce di tale portata. Sia la guerra contro il Covid sia la guerra in Ucraina si combattono infatti anche su quel terreno. È dunque naturale che in tanti chiedano conto a direttori di giornale, conduttori televisivi, intellettuali e influencer non solo di quello che dicono e che fanno, ma anche delle idee e delle persone cui scelgono di dare voce. Pensare di cavarsela dicendo che c’è la libertà di stampa e bisogna dare la parola a tutti è un modo di eludere la questione.
Se davvero tutti hanno diritto a esprimersi in tv e sulla stampa, allora non ci resta che prendere righello e cronometro, fare le divisioni e assegnare gli spazi, per ripartire equamente tempi televisivi e pagine di giornale tra sessanta milioni di italiani. Ma se così non è, se ammettiamo cioè che a monte viene sempre fatta una scelta, dobbiamo pure accettare che se ne discutano i criteri.
Rispondere a qualsiasi critica gridando alla censura è un modo troppo facile di mettersi al di sopra di ogni obiezione e di non assumersi la responsabilità delle proprie scelte. È più o meno l’equivalente di quello che fanno i magistrati quando invocano l’obbligatorietà dell’azione penale e gridano all’attacco all’autonomia della magistratura come risposta automatica a qualsiasi contestazione. Non per niente giornalisti e magistrati si spalleggiano da trent’anni per difendere esattamente questo equilibrio.
Il proliferare sui mezzi di informazione italiani di no vax e ni vax ieri, e oggi di grotteschi propagandisti di regime, per di più di un regime a noi ostile, non è dunque frutto di un complotto: si tratta del sistema di incentivi e disincentivi che si è naturalmente sviluppato a partire da quelle premesse.
Non abbiamo insomma troppo pluralismo, semmai ne abbiamo troppo poco. Non essendoci vere alternative a quel genere di narrazione, semplicemente non esistono disincentivi alla rincorsa verso il basso.
Salvo minuscole eccezioni, le uniche differenze sono differenze di grado. Fino a ieri, dal punto di vista politico-culturale, il panorama dell’informazione italiana era insomma straordinariamente uniforme. La pandemia prima e la guerra poi, con la minaccia radicale che comportano per tutti noi, hanno messo però in crisi questo equilibrio. Seguire la deriva populista fino alla propaganda no vax e filoputiniana più estrema è un po’ troppo persino per un mondo che fino a ieri ne ha legittimato praticamente tutte le parole d’ordine e tutti i propalatori.
Quando nel corso della pandemia alcuni giornalisti e conduttori televisivi hanno dichiarato di non avere alcuna intenzione di dare spazio alle tesi no vax hanno fatto una scelta sacrosanta, che però andava contro tutto quello che l’intera categoria ha sempre sostenuto.
La stessa questione si ripropone oggi dinanzi ad alcuni personaggi particolarmente grotteschi, capaci di negare anche fatti accertati e documentati, pur di sostenere la propaganda del governo di un altro Paese: un governo che ha bisogno di un simile sostegno per poter continuare impunemente la sua politica, che comporta lo sterminio di migliaia di innocenti in Ucraina e che minaccia apertamente anche noi.
Quella che si sta aprendo è dunque una discussione difficilissima e delicatissima, come qualsiasi discussione sul confine tra libertà e responsabilità. Una discussione in cui qualunque posizione unilaterale sarebbe sbagliata, perché abbiamo bisogno di entrambe le cose: libertà e responsabilità. Ma è anche una discussione necessaria, e tanto più necessaria se non si fermerà a ciò che sarebbe giusto fare oggi, ma andrà alle radici del problema, che sta in quella cultura populista e anti-istituzionale in cui siamo immersi dalla fine della Prima Repubblica.