Lucio Dalla, “Lucio Dalla” – 1979
Il secondo album della imperdibile trilogia dei primi tre lavori tutti-da-solo di Lucio esce all’inizio del 1979. Molti pensano sia il più bello dei tre, ma secondo me sono tre album così ricchi di musicalità e poesia, così pieni di intuizioni geniali sugli anni che stavamo vivendo, e così immediati e popolari – nel senso più raffinato e nobile del termine – che considerarli alla pari è molto meglio.
Quello che distingue questo secondo da “Come è profondo il mare” forse è proprio l’anno abbondante che intercorre fra i due, con tutto quello che è successo, in Italia e nella sua vita. Bisogna forse ricreare il contesto per comprendere entrambi 40 anni dopo, perché percezione e realtà spesso nel tempo divergono. Ora questi album sono entrati nell’immaginario nazionale, sono parte di noi. Ora. Allora, erano innanzitutto dei tentativi di fare qualcosa di nuovo, e da solo.
Quando Lucio si distacca dal poeta e suo autore testi Roberto Roversi, con cui aveva creato la trilogia precedente, si getta in un’avventura solista con buon margine di rischio. O almeno di incertezza: è consapevole che allontanarsi da Roversi è come tuffarsi nell’ignoto – Lucio ha spesso scritto le sue musiche, mai i suoi testi – ma la scelta è obbligata, «ho cominciato scriverli io semplicemente perché lui ha smesso di farlo», ed ha un retroscena filosofico che per lui è imprescindibile. Dopo un lustro abbondante nel quale la politica è stata al centro della musica italiana, soprattutto quella cantautorale, Dalla vuol tornare libero. Perché se c’è un fil rouge che attraversa tutta la vita del piccolo genio della piazza grande, è l’idea di libertà. Di stare fuori dagli schemi, fuori dalle gabbie, dai pregiudizi, dalla logica consolidata delle cose. Fuori da quello che devi fare, e che la gente – non solo il pubblico – si aspetta da te.
Roversi vorrebbe continuare a portarlo lungo quella canzone impegnata che ha prodotto grandi album (“Il Giorno Aveva Cinque Teste”, “Anidride Solforosa” e “Automobili” lo sono, senza dubbio), anche se accusa Dalla di alterare le sue parole. Lucio difende la sua vena artistica, è sconcertato che Roversi non abbia mai visto un suo concerto, e anche se le tensioni sono alte, fosse per lui avrebbe continuato, ma a volte quello che sembra un danno è una fortuna. Tutte le interviste di allora (che potete trovare nel libro ’E Ricomincia il Canto’ a cura di Iacopo Tomatis) ritornano sempre su un punto, che diventa la sua stella polare: «Voglio fare una canzone diversa, più aperta, meno indottrinata. Questa è diventata limitata, seppur di altissima qualità. Non voglio più farmi trovare, voglio io andare incontro al pubblico, parlare a tutti. Per me la musica è partecipazione».
In una bella e lunga intervista con Antonio Paladino per Panorama, riflettendo sul successo che gli ha portato il primo album da cantautore, sul punto non ha dubbi: «Non ho mai creduto in maniera totale nelle canzoni di denuncia, di protesta. Ne ho fatte anch’io, hanno avuto la loro funzione, ma adesso per fortuna è finita. Da tempo ho avvertito l’esigenza di canzoni che io chiamo di proposta. Che parlino di cose reali, quotidiane. E che servano da collegamento fra me e gli ascoltatori e tra gli ascoltatori e se stessi, al di fuori di tutte le strutture imposte, falsamente di impegno. Il nostro è il paese che produce, falsamente, più musica politica. Siamo vittime di un complesso: credendo di trovare credibilità nei confronti di se stessi, molti rinnegano quello che sono, semplici canzonettari. Invece si dovrebbe capire finalmente l’importanza grandissima della musica leggera. Si dovrebbe avere l’onestà di ammettere che una canzone è una buona canzone perché mi mette allegria, mi fa accarezzare la mia donna, mi fa scopare, mi fa tenere in braccio il mio bambino, mi fa venir voglia di stare in mezzo agli altri. Perché vogliamo chieder di più alle canzoni?».
E a proposito del suo essere di sinistra, comunista, per lui lo si è «attraverso il mio lavoro, attraverso la serietà e l’impegno che ci metto. Per me il comunismo è questo, è il mondo del lavoro ed è solo così che riesco a trovare un rapporto con gli altri. Ho sempre votato per il PCI, ma oggi rivendico il privilegio di non avere alcuna tessera, di esser critico, senza condizionamenti. Ci sono altre cose per fare politica, in maniera più diretta, personale: come tratti la tua donna, i tuoi amici, come vivi nell’ambiente di lavoro. Per troppo tempo chi ragionava è sembrato essere un qualunquista, un individualista, uno stronzo qualsiasi. Invece non è vero. La gente se n’è resa finalmente conto». E poi, sottolineando la rottura del dogma sinistrese il privato è pubblico, «il privato e il personale sono cose serie, esistono, eccome».
Siamo a metà 1978, e nonostante “Come e’ Profondo Il Mare” sia stato ben accolto (100mila copie per capirci, 16° Lp più venduto del 1978, non un trionfo ma comunque il suo miglior risultato fino ad allora), e nonostante la direzione sia delineata, del futuro ancora non v’è certezza assoluta. Ma queste nuove canzoni, sue, e anche il calore che ha incontrato dal vivo l’hanno rassicurato. Il resto lo fa il suo temperamento, il non aver paura di quello che arriva: «L’insuccesso non mi fa paura. Se arrivassero i fischi significherebbe che me li sono meritati. Mi esalterebbero. Comincerei a ballare. Voglio che il pubblico faccia la sua parte. È anche un modo per non sentirmi solo».
E alla domanda se soffre di angosce, risponde: «Ne ho parecchie, ma sono riuscito a razionalizzarle. Sono angosciato perché non ho la vocazione al successo e il fatto che le cose mi stiano andando così bene mi provoca un senso di vuoto, di smarrimento. Ogni nuovo disco è un esame e il prossimo lo sarà ancora di più. Cerco sempre di rimandarlo, un po’ per pigrizia un po’ perché non ho le idee chiare. Anche questo mi angoscia».
Alle parole di Lucio bisogna comunque sempre fare un po’ la tara, essendo l’iperbole, il paradosso, l’antitetico sempre parte del suo lessico, oltreché della sua poetica. Ma rimane il fatto che anche lui non conosce il suo futuro. La differenza con tanti altri è la sua vitalità, e la sua intelligenza superiore.
Questo è lo stato delle cose nei mesi in cui prepara “Lucio Dalla”, un album senza titolo, «non c’era nessuna canzone che volessi evidenziare a scapito delle altre, dieci pezzi autonomi, nessuno trainante», e nel quale Lucio si getta con tutto se stesso. Si apre con ’La Settima Luna’, criptica e visionaria nel raccontare sette quadri in cui si mischia il distopico e l’ironico, quello non può mancare mai:
«La settima luna
era quella del luna-park
lo scimmione si aggirava
dalla giostra al bar
mentre l’angelo di Dio bestemmiava
facendo sforzi di petto
grandi muscoli e poca carne
povero angelo benedetto».
La scansione delle sette strofe ricorda un po’ i brani apocalittici del Dylan dei primi album, come quel ’A Hard Rain’s Gonna Fall’ in cui si immaginavano scenari dolorosi, o ’Highway 61 Rivisited’ in cui le strofe erano più surreali. Il ritmo è però preso da ’Don’t Stop’, Fleetwood Mac dal loro Lp dei record, “Rumours”, che qualche anno più tardi verrà scelta da Bill Clinton per la sua vittoriosa campagna presidenziale. E’ un insieme di scenette, di flash e simbolismi sempre più tragici a man mano che ci si avvicina alla prima luna, che è poi l’ultima, in cui Lucio, con una sua tipica piroetta, consegna il finale al simbolo del futuro, una nuova creatura:
«L’ultima luna
la vide solo un bimbo appena nato,
aveva occhi tondi e neri e fondi
e non piangeva
con grandi ali prese la luna tra le mani, tra le mani
e volò via e volò via era l’uomo di domani»
Della luna, che compare spesso nei testi di queste canzoni, Nicola Sisto per Nuovo Sound glielo chiede, perché compaia così spesso: «Il mio mondo è un mondo notturno, questo per ragioni professionali oltreché di simpatia. Mi sembra abbastanza logico quindi che io mi riferisca alla luna, che per me poi è l’immagine della città. Non è un’immagine evocativa come potrebbe essere il mare, è qualcosa di estremamente concreto: Roma, Bologna, Milano io le ricordo attraverso le loro lune, queste palle che schiacciano le case, i palazzi». E aggiunge (e la considerazione vale per altre canzoni del disco, inclusa la finale ’L’Anno Che Verrà’): «Io credo nel futuro, ma cosa sia poi esattamente questo futuro, cosa ci porterà non te lo so dire. Io faccio canzoni, una cosa che per sua costituzione ha un suo naturale contenuto di ambiguità».
Non ci sono però solo cura e attenzioni per le parole. Ormai sono diversi dischi che la sua ciurma di studio e dal vivo è la stessa, e hanno raggiunto una compattezza notevole. Insieme a Rosalino, da poco ribattezzato Ron e cooptato in un ruolo che diventerà a poco a poco sempre più importante (chitarra e piano, ma anche autore e arrangiatore), ci sono alcuni di quelli che saranno i futuri Stadio: Giovanni Pezzoli alla batteria, Marco Nanni al basso, con la nuova entrata Ricky Portera alla chitarra elettrica. Reclutato al volo senza neanche un test una sera in un locale a Modena, Portera porta un elemento che a Dalla era sempre mancato, quella durezza melodica di una elettrica rock, capace di sottolineare certi passaggi ma soprattutto di tirare il gruppo, suonare la carica quando si vuol cambiare marcia o fare un break che porti la canzone altrove. È quello che fa con un assolo bello tirato fra la terza e la seconda luna, o quando ’Stella Di Mare’ a metà canzone prende velocità, gioco che Lucio userà spesso, ’Futura’ un altro esempio.
’Stella di Mare’ è di romanticismo struggente, impreziosito da tutti quei dettagli di intimità che in quegli anni Lucio sa mettere in rima come nessun altro, che son diventati la sua cifra:
«Cosi’ stanco da non dormire
le due di notte non c’e’ niente da fare
mi piace tanto poterti toccare
o stare fermo e sentirti respirare.
Dormi già pelle bianca
come sarà la mia faccia stanca
Provo a girare il mio cuscino
è una scusa per venirti più vicino.
Provo a svegliarti con un po’ di tosse
ma tu ti giri come se niente fosse
spengo la luce provo a dormire
ma tu con la mano mi vieni a cercare…»
Quando arriva il momento della sgasata, Portera è li in prima fila, a dettare il ritmo:
«Stella di mare, tra le lenzuola
la nostra barca non naviga
vola, vola, vola!».
’La Signora’ è un’altra canzone tutta da decrittare, chi ha scritto che sottintenda il potere, chi la società o addirittura la massoneria, chi invece che sia l’Italia della fine degli anni 70, con tutte le sue contraddizioni:
«La Signora ha molti figli, molti figli da educare
Qualcuno la va a trovare
Ma tanti li lascia per strada senza mangiare
La Signora non ha padre, è figlia di un figlio
Di un terremoto o di uno sbadiglio…»
Ma poi è Lucio stesso che non rivela né svela, ma invita a trovare dentro le sue canzoni quello che si vuole. È un classico caso che le interpretazioni rivelano, più che le intenzioni dell’autore, il carattere di chi le suppone, come in un gioco di specchi:
«La Signora ha tanti nomi, tanti nomi
Così da nascondersi e non farsi trovare».
’Milano’, lui con la casa a Corso Buenos Aires già celebrato nell’album precedente, è in quegli anni una città-simbolo dell’Italia ferita: è cominciata lì, a Piazza Fontana quasi dieci anni prima la strategia della tensione, ma la sua vitalità imprenditoriale e artistica la fa sopravvivere, pur in un decennio così torturato. Piena di intrecci e di incroci, a partire dalla finanza:
«Milano vicino all’Europa
Milano che banche, che cambi…»
Crocevia di immigrazione e internazionalità:
«Milano a portata di mano
Ti fa una domanda in tedesco e ti risponde in siciliano»
Di calcio ai massimi livelli mondiali, FVCR:
«Poi Milan e Benfica
Milano che fatica…»
C’è la Milano dello spettacolo e delle tragedie:
«Milano a teatro un olé da torero
Milano che quando piange, piange davvero…»
Si chiude una prima facciata, e la grandezza del nuovo corso è già evidente (ma il meglio deve ancora venire). Un suono pieno, potente: Lucio è sul sentiero di altri cantautori, quasi cantanti di una superband, come Finardi coi Crisalide, come De Andrè con la PFM, come Bennato. Finalmente ha potenza di fuoco alle spalle.
E poi, al vecchio amico Renzo Cremonini alla produzione si è affiancato Sandro Colombini. È passato dalla Ricordi e dalla Numero Uno, e al momento di dare il via a “Come è profondo il mare” l’ha chiamato il Direttore Generale della RCA, Ennio Melis, il più grande discografico italiano, uno a cui non mancava né la visione, né il coraggio, né l’istinto commerciale, la storia quasi monopolistica della RCA di quegli anni parla da sola. Colombini ha accettato con entusiasmo, è salito a bordo e in questa trilogia dà veramente il meglio di sé. Ma soprattutto, ha conquistato la fiducia di Dalla, e insieme sottraggono e aggiungono, levigano e finalizzano, trovano un equilibrio perfetto fra suono e melodia, tradizione italiana e internazionalità. Questo è un album inciso e missato alla grande, ascoltato oggi ad alto volume suona fresco e potente come allora.
Lavorano fianco a fianco, a volte anche trasformando una canzone fino al momento di entrare in sala, che nel caso specifico è il Castello a Carimate, in quegli anni dotato di tutti i più moderni mezzi, isolato nella brughiera lombarda e per questo un luogo che è quasi un ritiro.
È il caso di uno dei capolavori assoluti, ’Anna e Marco’. Lei «stella di periferia» e lui «lupo di periferia», lei con le amiche, lui col branco. Sembra di vederli. Entrambi che vorrebbero andar via, evadere dai sobborghi, poter andare in città o ancora più lontano. Sono due ragazzi come tanti, che Lucio ha osservato nel bar sotto casa, e su di loro crea un film neorealista degli anni 70, le balere emiliane al posto delle scintillanti discoteche broccoline del sabato sera:
«Anna bello sguardo, non perde un ballo
Marco che a ballare sembra un cavallo
In un locale che è uno schifo
Poca gente che li guarda, c’è una checca che fa il tifo
Ma dimmi tu dove sarà
Dov’è la strada per le stelle
Mentre ballano
Si guardano e si scambiano la pelle e cominciano a volare
Con tre salti sono fuori dal locale
Con un’aria da commedia americana
Sta finendo anche questa settimana
Ma l’America è lontana
Dall’altra parte della luna
Che li guarda e anche se ride
A vederla mette quasi paura
E la luna, in silenzio, ora si avvicina
Con un mucchio di stelle cade per strada
Luna che cammina, luna di città
Poi passa un cane che sente qualcosa, li guarda, abbaia e se ne va…».
C’è veramente tutto, in questa canzone, a partire da una melodia sublime, un testo che è un videoclip già fatto e girato; e soprattutto c’è un finale di quelli che non possono non toccarti il cuore. Loro che tornano, perché l’amore redime, l’amore salva, l’amore stasera è meglio di qualsiasi fuga:
«Anna avrebbe voluto morire
Marco voleva andarsene lontano
Qualcuno li ha visti tornare
Tenendosi per mano».
’Tango’ non ha il ritmo del sensuale ballo argentino, ma ne ha il senso fisico, lo stare vicini, intrecciati, connessi.
«Hai più preso il treno
Ci siamo spinti senza avere fretta
Ci siamo urlati nell’orecchio senza darci retta
Mentre il tango si perdeva in un mare lontano
Dov’è la tua testa da accarezzare dov’è la tua mano».
«Il senso è questo: mentre noi parliamo parliamo», «ci siamo urlati nelle orecchie senza darci retta/mentre il tango si perdeva in un mare lontano», ne parlò Lucio, «il tango è l’immagine dell’incontro, del collegamento. Ecco, quel tango-incontro che abbiamo perduto dobbiamo riconquistarlo».
’Notte’ è fascinosa e visionaria, parole in rima che si incontrano quasi per caso e ognuna casca al posto giusto:
«Notte sempre uguale
Senza chitarra, da fine Carnevale
Liscia come un mare d’olio
Scura come la rosa di uno scoglio
Notte bianca come il vestito di una sposa
In leggera discesa, così che il corridore stanco
Si riposa»
Questo è il Dalla-distillato, rime imprevedibili e perfettamente in fila, nuances che sfiorano e accarezzano. Una ballata lentissima, melodia seduttiva, gli archi arrangiati da Gian Piero Reverberi che lievitano e a poco a poco ti avvolgono. Per capirci, se questi sono i pezzi minori, vi rendete conto della qualità di Lucio in quegli anni.
’Cosa Sarà’ nasce quasi in un gioco provocatorio a distanza fra lui e Ron: quest’ultimo ha una musica, Lucio ha scritto un testo e dice mettiamoli insieme, Ron dice «impossibile non combaceranno mai», Lucio insiste e incredibilmente funziona. La incide a due voci con Francesco de Gregori, in quegli anni un legame amicale e artistico. In una procedura che ricorda altri salvataggi artistici, pensiamo a come riporterà in scena Morandi pochi anni dopo, Lucio ha letteralmente ripescato il Principe, così lo ha soprannominato, dopo che nell’aprile del ’76, intimorito dal processo inflittogli sul palco al Palalido di Milano dagli autonomi a metà concerto, si è praticamente ritirato dai concerti. Da un’idea di Walter Veltroni, allora segretario della Federazione Giovanile del PCI, nel luglio 1978 si ritrovano sul palco insieme allo stadio Flaminio di Roma, 40mila spettatori. Lucio guida e De Gregori si fa portare. C’è stima reciproca e una sorta di compensazione naturale, essendo per caratteristiche fisiche e caratteriali, oltreché vocali, praticamente opposti. Il brano è un funky leggero con un bell’assolo di sax di Lucio al centro, delizioso nel suo interrogarsi su mille aspetti della vita, alcuni felici altri tragici, senza dare soluzioni. Ci puoi riflettere sopra o semplicemente canticchiarla, quella musica leggerissima di cui Lucio parlava prima, ma – attenzione – con qualche mistero:
«Cosa sarà?
Che fa crescere gli alberi, la felicità
Che fa morire a vent’anni
Anche se vivi fino a cento
Cosa sarà?
A far muovere il vento
A fermare un poeta ubriaco
A dare la morte per un pezzo di pane
O un bacio non dato…»
E De Gregori continua…
«…Cosa sarà?
Che ti spinge a picchiare il tuo re
Che ti porta a cercare il giusto
Dove giustizia non c’è
Cosa sarà?
Che ti fa comprare di tutto
Anche se è di niente che hai bisogno
Cosa sarà?
Che ti strappa dal sogno…»
Chiude l’album ’L’Anno Che verrà’, ed è molto più di un finale:
«Caro amico, ti scrivo, così mi distraggo un po’
E siccome sei molto lontano, più forte ti scriverò
Da quando sei partito c’è una grande novità
L’anno vecchio è finito, ormai
Ma qualcosa ancora qui non va
Si esce poco la sera, compreso quando è festa
E c’è chi ha messo dei sacchi di sabbia vicino alla finestra
E si sta senza parlare per intere settimane
E a quelli che hanno niente da dire
Del tempo ne rimane»
In questa lettera a un amico immaginario, Lucio fotografa la terribile realtà politica di quegli anni, addolcendola appena attraverso la lente della poesia, e la intinge nell’inchiostro indistinto di sentimenti feriti e di aspirazioni, paure e speranze che il terrorismo ha fatto calare sul nostro paese come una cappa di piombo. Risentirla oggi, mentre un paese europeo viene invaso e quei sacchi di sabbia sono tornati sui nostri schermi televisivi, oltre a stringere il cuore ci fa anche ritrovare il lato peggiore della natura umana.
L’idea della lettera-in-musica (trovate la traduzione intera su infinititesti.com) è ripresa da ’Meu Caro Amigo’, un brano che Chico Buarque de Hollanda, uno dei massimi cantautori brasiliani, che come altri musicisti è dovuto espatriare nel 1969 per volere della dittatura che governa il Brasile, indirizza nel 1976 al drammaturgo brasiliano Augusto Boal, di cui l’autore è amico e collaboratore, che all’epoca si trova in esilio a Lisbona. Parla della situazione nella sua terra natale:
«Caro amico perdonami per favore
se non ti faccio una visita
ma siccome è venuto un postino
ti mando notizie con questa lettera.
Qui da noi si gioca a calcio
c’è molto samba, molto choro e rock’n’roll,
In certi giorni piove
in altri batte il sole
Ma ciò che voglio dirti
è che la situazione qui è nera…»
Lucio, che di Chico Buarque è divenuto amico, la riprende mischiando sogno e incubo, realtà e voli di fantasia, in una maniera più allegorica, anche più ironica, gettando anche lo sguardo verso il futuro, per quanto nebuloso:
«…Ma la televisione ha detto che il nuovo anno
Porterà una trasformazione
E tutti quanti stiamo già aspettando
Sarà tre volte Natale e festa tutto il giorno
Ogni Cristo scenderá dalla croce
Anche gli uccelli faranno ritorno
Ci sarà da mangiare e luce tutto l’anno
Anche i muti potranno parlare
Mentre i sordi già lo fanno
E si farà l’amore, ognuno come gli va
Anche i preti potranno sposarsi
Ma soltanto a una certa età
E senza grandi disturbi qualcuno sparirà
Saranno forse i troppo furbi
E i cretini di ogni età…»
È un affresco in cui Lucio mette di tutto: fenomeni tecnologici come la televisione, momenti ideali di festa, simboli della natura come gli uccelli che fanno ritorno in primavera, miracoli come i muti che ricominciano a parlare, utopie della Chiesa Cattolica come il matrimonio all’interno del sacerdozio, e qualcosa che sicuramente gli sta molto a cuore: poter fare l’amore, ognuno come gli va. Una grande allegoria di libertà, insomma.
Se la canzone di Chico Buarque è un choro, musica tradizionale piuttosto allegra e ritmata, quella di Lucio è una ballata, che come sempre cresce al suo interno, un cambio di passo spesso presente nella sua concezione musicale, spesso legata al momento più drammatico della canzone:
«Vedi, caro amico, cosa ti scrivo e ti dico
E come sono contento
Di essere qui in questo momento
Vedi, vedi, vedi, vedi
Vedi caro amico cosa si deve inventare
Per poter riderci sopra
Per continuare a sperare
E se quest’anno poi passasse in un istante
Vedi amico mio
Come diventa importante
Che in questo istante ci sia anch’io…»
È una canzone che crea sentimenti dissimili quando viene pubblicata. Alcuni parlano di pessimismo.
A Radio Anch’Io con Serena Dandini a un ascoltatore che si meraviglia del suo pessimismo, risponde: «Credo di aver fatto una canzone tutt’altro che pessimista. Anzi, coraggiosa. È chiaro che la televisione non promette tre volte il Natale, farebbe comodo a molti, soprattutto a quelli che vendono panettoni. L’unico miracolo che possiamo fare è su di noi: essere sempre funzionanti, essere in condizione di non vedere sempre il nero, il terribile, ma di fare delle operazioni di coraggio, che sono legate alla vita. Per cui, questo ’anno che verrà’ non è mica poi un anno mitico. Sta a significare un’operazione che dobbiamo compiere per andare avanti, un’operazione collettiva. È una riscoperta dell’amore, ma soprattutto dei nostri mezzi di partecipazione. Quindi, nonostante, è chiaro, il nostro mondo e la nostra società sia di fuoco, terribile, penso che sia anche affascinante e fantastica, perché si stanno muovendo le cose. Io non credo nello ieri, l’oggi mi disturba, ma credo soprattutto nel domani. È nella partecipazione a questo domani che vive la canzone. Per cui io mi sto preparando alle cose che verranno».
Ed è questo il senso della sua breve coda, quando il brano scende di ritmo, si placa, quasi si ferma, e getta lo sguardo lontano:
«L’anno che sta arrivando tra un anno passerà
Io mi sto preparando, è questa la novità».
Che non è peraltro una novità, è l’unica cosa che può dire chi, come Lucio, pensa che la vita comunque vada avanti, e che non rimanga altro da fare se non seguire il flusso della Storia.
Quello che oggi è un classico, quella canzone che io tenevo come un cordone ombelicale con Roma in mezzo agli altri dischi sullo scaffale della mia casa newyorkese durante quel 1979, allora lascia molti interdetti. La poetica rocambolesca, simbolica o allegorica di Lucio si fa fatica a capire, se non con l’occhio senza barriere della poesia. «Si reputa un poeta?», gli chiede Claudio Bernieri nel 1978: «Non c’è dubbio. Sono uno che racconta delle storie». A modo suo, naturalmente.
E questo, e soprattutto il successo che ne deriva, lascia interdetta parte della sinistra ufficiale, non piace, non viene capito. In estate, nel mezzo del Banana Republic tour con De Gregori che tocca gli stadi di tutta la penisola, c’è un episodio emblematico. L’Espresso, in quegli anni in cui non c’era il web e i settimanali politici e di costume orientavano le opinioni, vorrebbe fare una cover story sui due. De Gregori glissa, mai amato le interviste, soprattutto quelle che sanno di controversia. Lucio invece incontra Giorgio Bocca, ex partigiano e schierato sulla sinistra più monolitica. Il titolo già la dice lunga, ’Ma che ci trovano in quel Dalla?’, una sorta di esame che Lucio per un po’ asseconda a fatica. Il dubbio, la fantasia, l’imprevedibilità fan fatica a essere analizzate sotto la lente del microscopio. Ma quando Bocca gli chiede delle contraddizioni nei suoi testi, citando ’Corso Buenos Aires’, Lucio sbotta: «La mia è una canzone organizzata che può essere compresa solo da chi ne fruisce, non da uno come te, non da uno che scrive sull’Espresso e che concepisce la comunicazione come plagio. Ma non li leggi i titoli dell’Espresso? Ognuno è un plagio già confezionato, un richiamo letterario o snobistico già bello e impacchettato, prendere o lasciare. Il tuo direttore Zanetti mi ha chiesto di fare un’antologia di Lucio Dalla, di scegliere le parole, le canzoni che più assomigliano a Dalla. Ma se la faccia lui l’antologia, tanto lui ha già in testa che cosa deve essere Lucio Dalla per i lettori».
Come vedete, anche il Dalla che è oggi tesoro nazionale e riconosciuto autore geniale, una delle colonne del tempio della nostra musica d’autore, non ha avuto sempre vita facile. È stato un lavoro consapevole quello di “Lucio Dalla”, meticolosa la sua costruzione, e canzoni mai banali: «Credo di aver fatto un disco più difficile, un disco da analizzare attentamente», risponde nel marzo ’79 su Popster a Vincent Messina che gli chiede delle differenze con il precedente: «Credo anche di esserci riuscito. Vedi, se si facilitata l’ascolto incidendo un disco facilmente assimilabile, spesso si corre il rischio di non produrre nessuna tensione comunicativa, che per me è la cosa più importante. Il mio è un disco da ascoltare parecchie volte e, secondo me, più lo si ascolta più probabilità ha di lasciare il segno».
Non poteva ancora sapere che mezzo milione di persone l’avrebbero comprato, Lp più venduto dell’anno. La consacrazione di una musica, e di un uomo, liberi.