L’incomprensibileSi può annegare anche in dieci centimetri d’acqua

È impossibile capire cosa prova chi attraversa il mare su un barcone in cerca di salvezza. Caterina Bonvicini e Valerio Nicolosi in “Mediterraneo. A bordo delle navi umanitarie” (Einaudi) raccontano il terrore, il dolore fisico, ma anche la salvezza, visti in prima persona sulle navi delle Ong

Ho scoperto il concetto di distress sei mesi prima di sentirlo nei piedi. E solo ventiquattrore dopo mi sono accorta di averlo davvero capito. Uno scarto temporale è inevitabile. Il Mediterraneo è profondo, troppo profondo, e gli schiaffi spesso arrivano fuori sincrono. Mi è successo una mattina di febbraio, a Barcellona, mentre passeggiavo in un museo.

Camminavo per le sale e non riuscivo a concentrarmi. Non c’era niente che mi interessasse. All’inizio ero spaesata. Ho sempre amato i musei, mi sono laureata in storia dell’arte, com’è possibile? Passavo da una stanza all’altra e non mi fermavo mai. Camminavo e pensavo: Morsi. Camminavo e pensavo: Dieci centimetri d’acqua. Nella mia testa non c’era spazio, era occupata dai dettagli di Anabel. Allora sono uscita. Mi sono seduta su un muretto, al sole, e mi sono fumata una sigaretta. D’accordo, mi sono detta, i dettagli di Anabel hanno polverizzato tutto il resto. Forse la Sar è così.

In quel momento, su quel muretto, mi sono resa conto che per raccontare il Mediterraneo – immenso, sterminato e vuoto, come ti appare durante una traversata – puoi solo aggrapparti ai dettagli.

Una visione del problema dall’alto rende tutti troppo ragionevoli, o troppo irragionevoli. E questo ci fa perdere umanità. I dettagli invece destabilizzano, diventiamo più fragili e quindi più capaci di cogliere la fragilità degli altri. È il dettaglio che agisce davvero su di noi, e ci cambia. Era una cosa che sapevo già, dopotutto mi sono sempre occupata di letteratura, la scienza del dettaglio che va di traverso. Eppure mi sembrava di capirlo davvero per la prima volta, forse perché succedeva in altri abissi.

La nostra immaginazione è banale perché non conosciamo i dettagli. La nostra immaginazione è pericolosa perché è banale. La nostra immaginazione, banale e pericolosa, è facilmente manipolabile e viene usata contro di noi. E forse i dettagli sono l’unica arma che abbiamo per difenderci. L’unica via per entrare in una tragedia senza accesso e senza testimoni, insondabile.

Ero a Barcellona per passare una settimana insieme a Anabel Montes Mier e Riccardo Gatti, che oggi lavorano per Medici Senza Frontiere a bordo della Geo Barents. «Portavamo a bordo le persone e vedevamo dei morsi sulle gambe, – diceva Anabel – all’inizio non capivamo. Sai cos’erano? I segni lasciati dai denti di chi annegava sul fondo del gommone».

Quando si parla di Mediterraneo, tutti immaginiamo persone che affogano nella solitudine più totale, in un mare sterminato. Invece si può morire anche in dieci centimetri d’acqua. E nemmeno da soli. Con i piedi degli altri sopra di te. L’ultimo gesto, il più estremo, è mordere le gambe che hai intorno. Per dire che esisti o che non ce la fai più a esistere.

«Hai presente quel gioco che si chiama Tetris?» Certo, avevo passato l’adolescenza a giocare a Tetris. Cosa c’entrava con il Mediterraneo? «Ecco, a volte sono incastrati cosí, i primi spesso bisogna tirarli fuori in due. Immagina centottanta o centonovanta persone, in piedi, in dieci metri di gommone: diventano una cosa sola». Quindi ci sono persone costrette a fare la traversata in piedi. In piedi sui cadaveri degli altri. Quelli che cadono e non riescono a rialzarsi. Gente destinata a affogare in dieci centimetri di acqua sul fondo di un gommone, acqua mescolata a benzina, urina, pelle e fluidi corporali.

Per un attimo, ho fatto fatica anche solo a immaginare. Poi mi sono resa conto che era uno sforzo da niente. Loro vivono o muoiono, noi immaginiamo.

L’odore della disperazione

Poi mi sono imbarcata e ho visto il distress con i miei occhi. Cosa vedi? Vedi una prua rialzata, perché quando i tubolari sono sgonfi la prua si piega e si solleva. Vedi un barchino di legno inclinato, che oscilla. Vedi gente a cavallo dei gommoni, con una gamba dentro e una fuori. Vedi i tagli provocati dalle viti e dai chiodi che tengono insieme le assi di legno sul fondo. Vedi la pelle squarciata nel piede di un bambino. Tutto il resto invece non lo vedi, e non lo puoi neanche immaginare.

Non vedi i giorni e le notti in mare. Non vedi il carburante finito, al massimo una tanica vuota e un’imbarcazione in balia della corrente. Non vedi il sole che cuoce le teste e il buio che congela. Vedi solo gente disidratata o in ipotermia, che trema. E se tremano di fianco a te, braccio contro braccio, tremi anche tu. Non vedi la fame e non vedi la sete, non vedi il loro pianto, quando sanno di morire.

Ma c’è una cosa che non si vede e si può capire solo da lì, perché si sente: il distress è un odore. Un odore terribile e inconfondibile. Lo senti da lontano, appena ti avvicini un po’ con il rhib, anche se sei in mare aperto. È l’odore di quella melma che stagna sul fondo del gommone. È fortissimo e spaventoso, è l’odore della disperazione. Io, la prima volta, l’ho scoperto dalle mie scarpe. Toglievo i vestiti bagnati ai bambini e l’acqua mi colava sui piedi, avevo le scarpe imbevute di distress.

Il dissalatore della Mare Jonio era rotto, potevamo farci una doccia solo con una bottiglia di acqua minerale, e non avevo la mia valigia, rimasta sulla barca a vela d’appoggio. Dopo tre giorni, zoppicavo. Appena mi hanno restituito la valigia, ho cercato le infradito. Finalmente potevo liberarmi di quelle scarpe imbevute della disperazione degli altri. Me le sono tolte e mi sono accorta che avevo i piedi viola, tutti raggrinziti, sembravano ustionati.

Pensavo alle donne e ai bambini costretti a passare due giorni e due notti immersi in quell’acqua infernale. Per noi è impossibile capire cosa significa fare una traversata dentro un gommone, è fuori dalla portata della nostra immaginazione anche solo l’esperienza fisica. Mi guardavo i piedi e li interrogavo. Ma voi avete capito qualcosa? Neanche loro avevano capito, due gocce possono fare male ma non bastano. I nostri corpi non hanno idea di quello che succede ai loro, e questo è il primo grande limite all’empatia.

daMediterraneo. A bordo delle navi umanitarie, di Caterina Bonvicini, Valerio Nicolosi, Edizione pubblicata in accordo con Piergiorgio Nicolazzini Literary Agency (PNLA), Giulio Einaudi editore s.p.a, Torino, 2022, pp. 248, 16 euro

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