Recensioni teatraliPerché andare a vedere “Mercurio” al Teatro Litta

Quello scritto e diretto da Corrado D’Elia è uno spettacolo che indaga le difficoltà con cui l’uomo si libera dei suoi stessi mostri. Sarà al teatro milanese fino al 20 marzo

Uno spettacolo costruito sulla simbologia, la figurazione, quello al Teatro Litta fino al 20 marzo: “Mercurio”, tratto dall’omonimo libro dell’autrice belga Amelie Nothomb, ideato, scritto e diretto da Corrado D’Elia, torna in scena rinnovato.

Un lavoro storico della compagnia che prende il nome dell’attore milanese e che, con la delicatezza magica del teatro nel suo parlare per allusioni e non direttamente, tocca argomenti di forte attualità e anche durezza. Un vecchio capitano, Homer Loncours, ha salvato una giovane ragazza, Hazel, da un incendio.

Sarebbe rimasta sfigurata in volto e per questo indossa sempre una maschera. Da allora l’uomo si prende cura di lei morbosamente: l’ha condotta sulla sua isola, di Morte Frontiere, dove entrambi vivono. La ragazza, però, soffre, è afflitta. Il capitano assume un’infermiera, Françoise, per curarla.

Dal rapporto tra le due nasce un’amicizia che apre nuovi orizzonti alla giovane e finisce per imprigionare nel castello anche l’infermiera: Chiara Salvucci, Giovanna Rossi e Gianni Quilico gli attori, che sanno rendere la specificità di personaggi unici nella loro solitudine, interiore oltre che strettamente fisica.

Ed ecco il rumore di un battito d’ali a simboleggiare la presenza segreta del capitano: udendolo è chiaro che si trovava nei dintorni, e stava spiando le due donne nelle loro conversazioni. Così come le pareti rivestite di cornici vuote all’interno, a ricordare a Hazel che non può specchiarsi in quanto vedrebbe il suo volto trasfigurato. E la maschera, bianca, della ragazza che emerge con violenza in una scena perlopiù scura.

Potrebbe sembrare insomma uno spettacolo sul tema del controllo e dell’assoggettamento della persona debole. Ma non è così: parlando per simbologie allusioni, “Mercurio” è un lavoro che indaga le difficoltà con cui l’uomo si libera dei suoi stessi mostri. «Hazel è sempre libera di andarsene», specifica più volte il capitano. Ma ormai è troppo impaurita dalla vita, persino da se stessa.

E così Francoise, che si lascia imprigionare senza opporre resistenza alcuna: quasi a trovare una liberazione nell’essere costretta a rinunciare ai suoi abiti per indossare la veste che il capitano le procura, nell’avere i tempi del sonno, veglia e pasti controllati da un’altra persona. Due donne, ma potrebbero essere anche due uomini, che alla fine scelgono di vivere in una realtà in cui non hanno responsabilità perché non c’è autonomia. Doppiamente vittime, del loro carnefice e di se stesse.

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