Il nastrino rosso è solidarietà contro gli stupri di guerra, o connivenza con l’armata rossa? E, soprattutto, possibile che nel mezzo del casino in cui ci troviamo, le parlamentari della repubblica non abbiano domande più urgenti da porsi? Se dubitate della cogenza della questione-nastrino siete evidentemente impreparati rispetto alla modernità, che prevede che tutto ciò che non viene esibito non esista.
Tempo fa mi sono ritrovata ad assistere a una riunione tra persone molto serie su un tema molto serio – i fondi alla ricerca sul cancro – che si trovavano a un certo punto a discorrere del nastro rosa. Non il disco di Battisti: il nastrino rosa da appuntarsi sulla giacca per indicare al mondo ciò che il mondo, se non glielo indichi, non sa: che sei contrario al tumore al seno. Un tema invero controverso: ci sarà un pienone di gente che è favorevole al tumore al seno, no?
Qui si aprono due questioni. Una è che s’è deciso non si possa dare niente per scontato mai.
È il principio che ha creato la premessa «ho tanti amici gay», che viene irrisa ma è serissima. In un mondo in cui lo stesso calderone contiene la condanna di chi aggredisce due ragazzi che si baciano, o d’un padrone di casa che non affitta a una coppia gay, e quella di chi ritiene che le gare sportive vadano tenute tra gente con gli stessi elementi biologici (cioè: nata d’un sesso o d’un altro), o di chi è convinto che ai bambini spettino un padre e una madre, è ovvio che chiunque voglia sostenere una posizione conservatrice debba premettere «non sono omofobo, però». Se non dici che non lo sei, vuol dire che lo sei. Se non metti il nastrino colorato, sei per il cancro. Se non cuoricini i bambini malati, sei Erode.
L’altra è che, se il tuo scopo è raccogliere fondi per una buona causa, fai bene ad approfittarti dei capricci del tuo tempo, e un capriccio del nostro tempo è che vogliamo rimarcare che siamo dal lato giusto della storia, dal lato giusto delle questioni sensibili, dal lato giusto d’ogni buona causa. Se il nastrino rosa viene prodotto a un costo di poche decine di centesimi, e io me lo compro per due euro, due euro che vanno alla ricerca, le organizzazioni benefiche fanno non bene ma benissimo ad approfittare della mia stupidità, della mia smania di segnalare quanto sono virtuosa, del mio riflesso pavloviano nel voler ostentare che sono dalla parte del bene.
Diceva Tognazzi nella Terrazza: la rivoluzione non la fa chi dovrebbe farla, perché mai dovrebbe farla il cinema? Delle cose serie non riescono a occuparsi le parlamentari di sinistra, perché dovrebbe occuparsene il cittadino che vuole solo dire che sì, è per le giuste cause e il cancro è una brutta cosa?
E quindi ieri, leggo sul Corriere, «Le parlamentari del Pd erano arrivate a Montecitorio con un fiocco nastrino o laccetto rosso al braccio per testimoniare il loro dolore per le donne ucraine stuprate o uccise. Ma prima di entrare in Aula tutte le donne dem lo hanno tolto. Perché? “Non volevamo essere male interpretate o fornire pretesti alle polemiche”, spiega la capogruppo Deborah Serracchiani, di fronte a chi temeva che il nastro rosso potesse avere un riferimento con i colori della propaganda russa».
Il problema dei gadget è che essi hanno forme e colori limitati. Il nastro rosso ti fa forse sembrare un fiancheggiatore dei russi, ma magari eri solo solidale con le vittime dell’Aids. Era questo il simbolismo, quando a fine Novecento abbiamo iniziato a vedere i primi fiocchi rossi, quando ancora non c’era una buona causa al minuto, una giornata internazionale al giorno, e relativi simboli da esibire. Adesso, l’affollamento dei significati nel significante “nastrino colorato” è più faticoso di quello della spiaggia di Rimini a ferragosto.
Il nastro giallo, scopro dalle enciclopedie on line per le quali esiste solo ciò che è coevo di Google, lo si sfoggia per solidarizzare contro l’endometriosi (non abbastanza, visto che nessuno ha ancora trovato una cura; ma d’altra parte non si è ancora trovato neppure un vaccino per l’Aids, e i nastri rossi s’indossano da prima), o a favore dei marò. Sono sicura d’aver avuto nel secolo scorso un nastro giallo legato al processo ad Adriano Sofri, ma – così come, se non esibisci, non sei solidale – se non è su Google evidentemente me lo sono sognato.
La lista dei significati solidali che si possono attribuire al nastro nero è la trama d’una pièce di Yasmina Reza: solo alla “a” ci sono Amish, antiterrorismo, apnea del sonno. Bello quel nastro nero, dimmi un po’: è che hai il setto nasale storto o che non ti piacciono i terroristi?
Non è solo un problema di nastri, naturalmente. Siamo nel secolo in cui non sappiamo se quel tizio che ha messo il cuoricino a quindici post dolenti di buone cause meriti il Nobel per la pace o avesse solo lasciato in tasca il telefono col touchscreen attivo; e non sappiamo se un’attrice vestita di nero sia rimasta vedova, s’illuda di sembrare più magra, o abbia solo uno stylist pigro. È un problema di neuroni, di posizionamento, e di mancanza di senso del ridicolo. Quel sottovalutato senso che c’impedirebbe d’aver bisogno di rassicurazioni circa il fatto che, di qualunque colore porti gli accessori, una deputata della repubblica italiana difficilmente penserà che lo stupro di guerra sia una pratica da incoraggiare.