Il mio Tognazzi preferito è del 1981. Prima ancora di arrivare a Cannes, vincere come migliore attore per “La tragedia di un uomo ridicolo”, salire sul palco e chiedere se fosse uno scherzo, «se è uno scherzo mi suicido sulla Croisette con una forchetta, e ovviamente degli spaghetti». Tre mesi prima, Ugo Tognazzi era a Sanremo, nella prima giuria di qualità della storia del festival. Il presidente era Sergio Leone; ma, se avete un ricordo della sera in cui Cecchetto presenta la giuria, non può che essere un ricordo di Ugo Tognazzi.
Bisogna pensare a una tv che non era, tecnicamente, quella di oggi: niente telecamere a spalla, niente microfoni senza filo. Quindi, quando Cecchetto scende in platea a intervistare i giurati, il tutto è un po’ goffo: parlare col conduttore guardandolo in faccia e dando le spalle alla platea, o viceversa? A domanda, Cecchetto risponde: fai un po’ e un po’. Tognazzi, però, è Tognazzi: fa come gli pare.
E il suo come-gli-pare di quella sera è mollare lì Cecchetto e decidere di salire sul palco, dove si terrà la sua intervista. Se solo ci fosse una telecamera che lo segue, un filo abbastanza lungo, una tecnologia in grado di stargli dietro. È il Tognazzi che nella cucina dei “Nuovi mostri” lancia un pesce sulla collottola di Gassman sbottando «ma va’ a dar via il cü», però beneducato e benvestito.
Cecchetto esita un po’, poi lo raggiunge. La star della serata è sul palco, capotavola è dove si siede lui.
La commedia è un carattere ereditario? Ci penso ogni volta che Maria Sole Tognazzi – tra le figlie di uomini famosi che m’è capitato d’incontrare, l’unica con una parvenza di sanità mentale – mi manda qualche foto da qualche posto stupendo, firmando il messaggio «Mascetti». Non credo ci sia bisogno di spiegarlo – “Amici miei” è lessico famigliare per non so più quante generazioni d’italiani – ma la firma serve a dire (mentendo, sennò che commedia sarebbe) che è lì a scrocco: è pur sempre la figlia del conte Mascetti.
La commedia dev’essere un carattere ereditario, lo si capisce al primo minuto di “La voglia matta di vivere”, il documentario che Ricky Tognazzi ha girato per i cent’anni dalla nascita di suo padre (nel 1922 erano nati Gassman e Tognazzi, ma non sarò io a piangere il cinema italiano vivente: secoli fa Francesca Archibugi mi rimproverò dicendo che non ha senso paragonare le epoche d’oro a quelle ordinarie, e forse aveva ragione lei).
Ugo Tognazzi era nato il 23 marzo, ma “La voglia matta di vivere” è andato in onda ieri sera (potete recuperarlo su RaiPlay), perché ormai siamo tutti così terrorizzati che qualcuno arrivi prima a celebrare il decennale d’una morte, il centenario d’una nascita, il cinquantennale d’un film, che arriviamo in anticipo come gli insicuri agli appuntamenti. Ma sto divagando (che stranezza). La commedia, dicevo.
La voglia matta di vivere inizia in un cimitero, come “Per Lucio”, il documentario per i dieci anni dalla morte di Dalla che, pur avendo stupendi materiali d’archivio, non trova mai il tono giusto. “La voglia matta di vivere” lo trova subito, giacché la commedia non è un carattere recessivo: nel cimitero Ricky e Gianmarco e Thomas bisticciano sulla data da far incidere o no sulla lapide di papà.
Il mio Tognazzi preferito è del 1965. Non farò quella che vi promuove il suo nuovo libro dicendovi che lì ha scritto già tutto quel che aveva da dire su come Tognazzi che balla sul tavolo in “Io la conoscevo bene” sia la scena più straziante della storia del cinema italiano, e quella che più dice cosa siamo noialtri oggi: pronti a coprirci di ridicolo per una promessa di gloria, per elemosinare un riflettore, perché qualcuno o qualcosa faccia di noi una star.
Pronti a coprirci di ridicolo ma dal ridicolo terrorizzati: tutto il discorso pubblico sull’hate speech e la legge Zan e tutte quelle cose che andavano di moda l’anno scorso (ora ce le siamo dimenticate perché abbiamo nuovi giocattoli dialettici: siamo tutti opinionisti geopolitici, ma poi il ciclo delle stagioni farà tornare quei temi), quel tema lì si fonda sulla convinzione che nessun delitto sia grave quanto prenderci in giro. Che ridano di noi è la prospettiva più terribile.
E quindi la commedia è un carattere recessivo, è impossibile non pensarlo quando il documentario arriva a «Se molta gente ci è cascata, forse un po’ la faccia da brigatista ce l’ho», il commento di Ugo alla copertina del Male col titolo «Arrestato Ugo Tognazzi, è il capo delle BR». Non riesco a immaginare un attore di oggi che si presti a una cosa del genere; non riesco a immaginare un’opinione pubblica che non lo aggredisca al grido di «Non ti vergogniiii, le brigate rosse ammazzano la gente e tu fai lo spiritosoooo»; non riesco a immaginare quello spericolato attore che, intervistato sulla questione, non si scusi per aver ferito assortite sensibilità ma anzi dica d’avere la faccia da brigatista.
È uno strazio guardare le immagini del funerale di Tognazzi, è uno strazio catalogare quella stagione di cui non è rimasto quasi nessuno. Villaggio, Gassman, Scola, Monicelli, la Vitti, Ferreri, Risi, Vianello, la Mondaini. Sono tutti morti, e non dirò con quali scarsi ci abbiano lasciato perché poi Archibugi mi sgrida e mi dice che rivaluterò da morti quelli che ora mi sembrano cani e mi pentirò di non averli apprezzati in tempo.
Il mio Tognazzi preferito è del 1980. È il produttore che, ne “La terrazza”, tormenta facendolo finire in un ospedale psichiatrico lo sceneggiatore interpretato da Trintignant. Quello di «Fa ridere? Fa ridere?». Quello cornificato e trattato con perpetuo sprezzo dalla moglie, Ombretta Colli. Anni fa ho scritto un film che non si è mai fatto. C’era un protagonista ridicolo e narciso, che si ritoccava continuamente la tinta dei capelli con uno di quegli affari che si comprano facilmente oggigiorno, quei mascara per capelli, ti ritocchi l’occasionale filo bianco senza stare ad andare dal parrucchiere.
Tempo dopo aver finito quel soggetto, ho rivisto “La terrazza”. Il mio conscio aveva dimenticato che Tognazzi in quel film lì si ritocca i capelli grigi sulle tempie con un mascara, con decenni d’anticipo sulla diffusione sul mercato di quel prodotto a quello scopo. Non lo sapevo, ma lo sapevo. Come Mascetti e come il capo delle BR, il mascara per capelli stava nel mio subconscio, e forse in quello della nazione. La cultura popolare è quella cosa lì: le cose che sai anche senza sapere di saperle. Ed è solo per non farmi sgridare che non dico che Tognazzi era quella roba lì, cultura popolare, perché all’epoca il cinema era cultura popolare, e adesso non so bene cosa sia, e sono passati pochi anni, ma sembrano cento.