Ben alzato, New York Times. C’è, ci svelavi ieri, un problema di libertà di parola, negli Stati Uniti. Ma guarda un po’. Ma chi l’avrebbe mai detto. Ma sorpresa sorpresissima. Chissà da dov’è cominciata questa imprevista deriva, chissà da dove spunta questo problema di cui nessuno s’era finora accorto, ohibò.
Avrete anche voi un amico al quale raccontate una cosa che non sapeva, e dopo due ore quello la racconta ad altri come fosse una cosa che ha studiato a lungo, e lo fa davanti a voi, da tanto è convinto che quell’idea sia sua (si chiama «pseudologia fantastica», ovvero: perdere la consapevolezza che le stronzate che racconti sono appunto stronzate).
Ecco, il New York Times è uguale: lietamente ignaro che un problema esistesse prima che il problema stesso venisse ammesso dal New York Times. Non disposto ad ammettere che forse è in quella redazione che sono arrivati tardi a riconoscere il brodo di coltura d’una questione culturale. Macché: come i millennial, il New York Times è convinto che le cose accadano solo quando accadono a lui.
Diranno i miei piccoli lettori: ma quindi l’articolo pubblicato ieri è stato scritto nella primavera del 2020, quando il NYT pubblicò un editoriale d’un senatore repubblicano, Tom Cotton, il quale sosteneva che contro i teppisti che devastavano le città con la scusa di Black Lives Matter si dovesse mandare l’esercito. È stato scritto quando le proteste contro quest’articolo costarono il posto al responsabile della pagina degli editoriali, giacché la sinistra culturale americana era già un posto così illiberale da non tollerare che idee che non erano le proprie avessero dignità di pubblicazione.
No, perché evidentemente il ben alzato New York Times non ritiene che quello fosse un problema di libertà d’espressione (sarà stato un problema di celiachia, di abigeato, di quadrati costruiti sui cateti). Il problema di libertà d’espressione gliel’ha, santiddio, spiegato un sondaggio (scusaci, Gianni Pilo: ti avevamo sottovalutato).
Il sondaggio è stato commissionato dal New York Times assieme a – non me lo sto inventando: sapessi inventarmi roba simile, sarei David Mamet – un college di liberal arts fuori New York, gestito dai frati. Si chiama Siena college: prende il nome da Bernardino da Siena (la realtà la deve smettere di scippare il lavoro agli sceneggiatori).
Per quel che vale il sondaggio (niente, come tutti i sondaggi), gli americani sono preoccupati del fatto che, per dirla con la frase fatta che tanto amano irridere quelli secondo i quali la cancel culture non esiste, non si possa più dire niente. L’84 per cento dice che non si esprime liberamente per timore di ritorsioni.
Non esattamente una sorpresa, se siete vivi in questo decennio. Dipende da molti fattori, come sa chiunque non sia appena tornato da Marte (cioè chiunque non faccia parte della redazione degli editoriali del New York Times). Principalmente, dal fatto che non esiste più una selezione reciproca tra le parole dette e chi le ascolta, e se qualunque discorso (o articolo, o film, o canzone, o libro, o programma televisivo) dev’essere ricevibile da chiunque dovrà per forza trattarsi di discorsi (o altre forme d’espressione) abbastanza annacquati da non offendere nessuno, non ferire nessuno, non dare fastidio a nessuno.
Di recente un’azienda ha proposto a una influencer orfana di promuovere un prodotto assieme alla madre in occasione della festa della mamma. Quando lei ha precisato d’essere orfana, il marketing dell’azienda ha insistito: ma puoi promuoverlo pensando a tua madre. Il tizio del marketing non è un fulmine di guerra, ma non è neanche pensabile che tutti conosciamo tutti i punti deboli e le fragilità e i tabù di tutti. Mentre mi raccontavano questa storia, sul mio telefono è arrivata una notifica: un negozio mi offriva uno sconto per la festa del papà. Ho pensato per un attimo di offendermi in quanto orfana, poi ho chiesto a un amico imprenditore cosa ne pensasse. Mi ha spiegato quel che già sapevo: che la più parte del lavoro di chi comunica per un’azienda è fare attenzione a non offendere nessuno.
E questo in Italia, dove vige quella che quand’ero piccola si chiamava «la legge di Cavazza»: chi s’incazza si scazza. Chi si offende se la fa passare.
Ma proviamo a pensare a com’è la situazione in un paese in cui se dici la cosa sbagliata ti licenziano, e se ti licenziano un’appendicite può mandarti in bancarotta perché l’assicurazione sanitaria è legata all’avere un lavoro.
Che la libertà d’espressione sia un problema che la sinistra di questi anni ha dei problemi ad affrontare è evidente ovunque. Quando c’è stato l’affaire Paolo Nori/Dostoevskij, per esempio, il Twitter italiano era pieno di mestieranti dell’intelletto secondo i quali la cancel culture non c’entrava niente. Ho messo a fuoco in quei giorni un dettaglio che non avevo fino ad allora compreso: la sinistra italiana pensa che la cancel culture sia il MeToo. Che cancel culture sia dire che non bisogna andare a vedere Louis CK perché s’è calato le mutande davanti a qualcuna, mica che non bisogna insegnare autori russi perché gli allievi sono sensibili alla guerra.
Però gli intellettuali italiani sono quel che sono: gente che vuole mettere la «schwa» per rendere postmodernamente neutre le parole in una lingua coi generi, ma non è mai riuscita a imparare quando vada usato «le» e quando «gli».
Dal New York Times – il più grande giornale del mondo, sia detto senz’alcuna ironia – mi aspetterei qualcosa di più e di meglio. Dal più importante giornale d’una nazione che ha la libertà di parola in Costituzione, mi aspetterei che non si svegliassero nel 2022, dopo anni di questo andazzo, dopo due anni dalla lettera di Harpers in cui i meno ottusi tra gli intellettuali anglofoni segnalavano la deriva, che non si svegliassero per ultimi ma col tono di chi ci svela cose che non sapevamo, dicendoci che non è solo importante dire ciò che vogliamo ma anche difendere il diritto a farlo di chi dice cose che non ci piacciono. Ma pensa un po’.
Che non arrivassero per ultimi ma con la perentorietà di chi è pioniere nell’affrontare i temi scomodi a scoprire che ci sono molte definizioni di «libertà d’espressione», ma nessuna di esse include il chiedere venga punito chi dice cose che troviamo sgradevoli. Ma pensa un po’.
Che non fossero gli ultimi a rendersi conto che la conversazione collettiva è diventata come i barbieri di una volta, quelli col cartello «qui non si parla di politica»: se vuoi sopravvivere ai social, il cartello invisibile dice che non devi parlare di generi sessuali, di questioni razziali, e d’una lista d’altri argomenti sensibili rispetto ai quali la gente si turba a venire contraddetta. Ma pensa un po’.
E che non ci svelassero col tono dei saggi che già hanno capito cose alle quali noi arriveremo più avanti che sì, in America non c’è Putin che ti arresta se dici cose sgradite, ma se su Twitter appena dici una cosa impopolare accorrono le greggi a chiedere il tuo licenziamento, beh, magari anche quello è un problemuccio. Ho già detto «Ma pensa un po’»?