In questi giorni si discute molto delle conseguenze economiche della guerra in Ucraina. In fondo, anche la scelta di invadere un altro Paese è una scelta con una forte componente economica: l’invasore deve bilanciare costi e benefici.
I costi di una guerra sono le spese correnti della distruzione di attrezzature, le vittime, le pensioni per i veterani, gli interessi sul debito – visto che c’è un picco di spesa nel breve periodo – e infine costi più intangibili come la perdita di reputazione.
Dall’altro lato ci sono benefici materiali: la conquista di risorse (lo dimostra l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq, che puntava ad appropriarsi dei pozzi petroliferi) oppure la conquista di mercati, come nel caso della guerra dell’oppio a metà Ottocento dove la Gran Bretagna attaccò la Cina per assicurarsi il mercato per l’oppio che produceva in India. Tra i benefici c’è anche il salvataggio di vite umane se queste sono direttamente minacciate.
È possibile tradurre costi e benefici non monetari in grandezze economiche. Per le vite umane ci sono diversi metodi: si possono calcolare ad esempio i redditi attesi per gli anni della speranza di vita, creando un dato usato correntemente dalle assicurazioni per i risarcimenti anche in tempo di pace; oppure si può misurare la perdita di prodotto interno lordo collegata alla singola perdita per gli anni a venire.
La guerra è più attrattiva se gli asset di cui ci si può appropriare producono profitti, in particolare se il mercato internazionale è poco competitivo e i costi sono ridotti: in buona sostanza, se i tempi dell’invasione vittoriosa sono brevi. Il petrolio del Kuwait citato in precedenza è più profittevole del grano ucraino, che ha un livello di profitti futuri limitato dalla concorrenza internazionale.
I costi sono collegati alle truppe e alle attrezzature impiegate, e al tempo necessario per la vittoria: più lunghe sono le operazioni e più salgono i costi.
Da metà Novecento i costi dei conflitti sono cresciuti in modo significativo. Uno studio della Marina americana stima i costi di tutti i conflitti in cui sono stati coinvolti gli Stati Uniti. Mentre nell’Ottocento i costi annui si contavano in decine di milioni di dollari (parametrati al dollaro del 2008), dalla guerra di Corea in poi i costi si contano in miliardi di dollari: si è passati dai 450 milioni l’anno della guerra messicana (1846-49) ai 3 miliardi annui della guerra ispanoamericana fino ai 100 miliardi l’anno per la guerra di Corea e i 50 miliardi l’anno della prima guerra del Golfo. Secondo alcune stime la prima settimana di invasione dell’Ucraina sarebbe costata 20 miliardi di euro.
Una ricerca della Duke University fa un’analisi costi benefici di cinque guerre dove erano coinvolti gli Stati Uniti (Korea, Vietnam, Grenada, Panama, Golfo) e in nessun i benefici intangibili sono stati superiori ai costi sopportati (nemmeno aggiungendo all’equazione i benefici intangibili).
I costi salgono perché le attrezzature impiegate sono sofisticate e il materiale è più costoso: le armi bianche non si consumano, un proiettile da mortaio costa 300 euro, un razzo stinger 40mila. Le attrezzature richiedono una manutenzione costosa, una logistica complessa e impiegano carburante. Nella seconda settimana di invasione i russi hanno schierato veicoli degli anni ’80 sia perché le perdite sono meno costose ma anche perché le riparazioni sul campo sono più semplici ed economiche.
I costi indiretti e reputazionali sono aumentati nel tempo di pari passo con gli scambi internazionali. Oggi ogni nazione è immersa in un reticolo di scambi di beni e servizi per i quali occorre una dose di fiducia. Anche senza sanzioni formali un Paese invasore si trova ad affrontare maggiori costi di transazione. Inoltre, nei beni di consumo l’immagine e i sentimenti presso i consumatori degli altri Paesi può forzare le imprese a rinunciare agli scambi per timore di perdere brand loyalty domestica. L’abbandono da parte di molti marchi del mercato russo, con chiusura di negozi e filiali è dovuta a questo fattore oltre che alle sanzioni.
Infine i benefici sono più incerti. Mentre è possibile trasferire facilmente la proprietà di una terra invasa, come nel corso dei secoli è stato fatto innumerevoli volte, trasferire imprese è più complesso. Per farle funzionare servono competenze manageriali e imprenditoriali che richiedono fiducia e certezza dei diritti di proprietà, altrimenti si sgonfiano.
Insomma, l’equilibrio costi-benefici a priori è più incerto, nel senso che errori di valutazione o imprevisti possono cambiarlo in modo significativo. Per ipotizzare costi non proibitivi occorre sperare in una guerra lampo e in una grande sproporzione di forze in campo. E come si è visto per gli Stati Uniti, ma vale anche per altri, gli equilibri finali in termini economici sono generalmente non favorevoli.
Perché allora si continua a fare le guerre e perché non si fermano subito? È naturalmente difficile rispondere a questa domanda, che non ha solo dimensioni economiche, ma si possono indicare diverse ragioni, anche collegate all’attualità.
Innanzitutto gli errori iniziali di valutazione sono più facili di quanto sembri e la vittoria veloce è una succulenta attrattiva. Anche questa volta Putin ha sottovalutato la capacità di resistenza dell’Ucraina, la sua compattezza e sopravvalutato le performance, soprattutto logistiche, del proprio esercito.
Questi errori di valutazione sono più facili in quei contesti assolutistici dove dare le cattive notizie al capo è spesso pericoloso. È stato riportato che l’Fsb aveva commissionato un sondaggio in Ucraina nei mesi precedenti e aveva tradotto la ridotta popolarità di Volodymyr Zelesnky (27%) in una divisione del Paese.
L’incitamento di Putin a un cambio di regime nei primi giorni di guerra aveva esattamente lo scopo di abbassare i costi da sopportare per il conflitto e i costi successivi di mantenimento dell’occupazione.
In secondo luogo, i costi della guerra sono affondati, cioè non recuperabili: nelle decisioni si tiene conto solo dei costi incrementali che vengono comparati ai benefici attesi. Questo meccanismo spinge a continuare operazioni il cui bilanciamento complessivo risulta già in perdita.
Infine, le valutazioni di una leadership possono essere biased se i costi di un’operazione ricadono su tutta la popolazione, ma i benefici sono appropriati prevalentemente dalla leadership stessa.
Il reticolo di scambi commerciali e culturali rende più costosa sia la perdita di fiducia che la sospensione di questi rapporti per isolamento o per sanzioni formali. La facilità di produrre e diffondere informazioni rende difficile nascondere le azioni di aggressione e allarga i costi reputazionali delle azioni di aggressione.