L’invasione russa sta avendo conseguenze di ogni tipo, in ogni settore, ora dopo ora. Si sta parlando molto dell’aumento sui mercati del prezzo del grano e dei prodotti derivati, come pane e pasta.
Negli ultimi giorni il prezzo delle materie prime agricole ha subito forti fluttuazioni, come prevedibile: le tensioni tra in Europa orientale minacciano di frenare le spedizioni di grano, mais e olio vegetale in tutto il mondo. A questo si aggiunge l’aumento del costo di carburanti e fertilizzanti, che a loro volta rientrano nelle spese dell’industria agroalimentare e gravano sui prezzi.
Per la Russia tutto questo si sta traducendo in un vantaggio economico. Anzi, forse è l’unica vittoria che emerge da questa prima settimana – o quasi – di conflitto. Il gigante eurasiatico è di gran lunga il più grande esportatore mondiale di grano, ha venduto 35 milioni di tonnellate di grano in tutto il mondo nel 2021.
Discorso simile anche per l’Ucraina, che a sua volta è una delle potenze mondiali in crescita nel settore: i dati dell’International Grain Council rivelano che le esportazioni ucraine di grano, orzo e mais sono quasi triplicate dal 2012. E l’anno scorso, per la prima volta, l’Ucraina ha superato gli Stati Uniti nelle esportazioni di grano, diventando così il terzo fornitore di grano a livello mondiale, dopo Russia e Australia.
Insomma, insieme Mosca e Kiev producono quasi un quarto del grano mondiale. «La produzione agricola, tradizionalmente un settore in cui la Russia non è mai stata fortissima a causa della scarsa qualità dei suoi terreni gelidi e inclini alla siccità, è cresciuta negli ultimi dieci anni», si legge in un articolo pubblicato su Bloomberg.
L’autore dell’articolo, David Fickling, ripercorre l’ultimo secolo di storia della Russia – e insieme dell’Unione Sovietica – per individuare il momento in cui il grano è diventato un elemento centrale nell’economia di Mosca.
«La Russia zarista – si legge nell’articolo – era il più grande esportatore mondiale di grano. Ma l’Urss ebbe grosse difficoltà. Il crollo della produzione durante la Prima Guerra Mondiale, quando più di 10 milioni di contadini vennero trasformati da produttori di cibo in consumatori, portò ad anni di rivolte per il cibo culminate nelle rivoluzioni del 1917. La collettivizzazione e la brutale carestia che uccise circa 4 milioni di ucraini negli anni ’30 portarono la produzione agricola a ristagnare, al punto che, negli anni ’70, l’Unione Sovietica importava una quantità di grano senza precedenti».
Solo negli ultimi anni lo schema si è ribaltato, di nuovo. Dall’invasione della Crimea nel 2014, la Russia è passata dallo status di importatore su larga scala a esportatore intercontinentale. Le spedizioni di grano hanno superato quelle dell’Unione Europea, degli Stati Uniti e del Canada nel 2017, per riportare il Paese al suo status dell’epoca zarista.
Oggi l’influenza della Russia nell’industria del cibo è destinata ad aumentare piuttosto che a diminuire, e sarà così ancora a lungo.
Fa tutto parte dei progetti del Cremlino: negli ultimi anni le importazioni di carne sono quasi del tutto esaurite, assottigliando la quota di deficit commerciale. E anche i prodotti lattiero-caseari – un’area in cui la Russia è ancora in deficit commerciale – sono meno problematici di quanto possa sembrare.
In più, sono aumentate anche le vendite di frutti di mare, grazie al riscaldamento delle acque nel Pacifico settentrionale: questo fattore permette di esportare in mercati sempre più ricchi, come quello della Corea del Sud e della Cina.
Ridurre la dipendenza dalle importazioni era un obiettivo di lungo periodo di Vladimir Putin, un traguardo previsto dalla Dottrina sulla sicurezza alimentare del Paese del 2010 – e poi ripresentato nel 2020.
Negli ultimi anni anche il cambiamento climatico ha giocato un ruolo determinante. L’ultimo rapporto pubblicato lunedì dall’Intergovernmental Panel on Climate Change, infatti, dipinge un mondo in cui le specie vegetali e animali stanno già fuggendo da latitudini tropicali sempre più torride e turbolente, e si stanno spostando più a nord.
Anche se il riscaldamento globale si dovesse mantenere al di sotto di 1,6 gradi Celsius entro il 2100, l’8% dei terreni agricoli odierni non sarà adatto all’agricoltura entro la fine del secolo. E anche la vita oceanica sta migrando verso i poli, a una velocità di 59 chilometri al decennio, portando una quota sempre più ricca del mercato del Pacifico nelle acque russe.
La Russia, quindi, si trova in una posizione – geografica, ma anche politica – di vantaggio, che le permetterà di sfruttare a suo favore il caos portato dall’emergenza climatica.
«Questa è una ricompensa perversa per un Paese che ha contribuito ampiamente al riscaldamento climatico con il suo export mondiale di combustibili fossili», sottolinea Bloomberg.
Le conseguenze della crisi ucraina sul mercato alimentare si rifletteranno anche sulle nazioni importatrici di grano, come quelle della fascia mediorientale.
In Egitto, il pane è un elemento centrale nella dieta dei cittadini: sulle tavole degli egiziani se ne consumano enormi quantità, il doppio della media mondiale. Soprattutto in quelle forme piccole e rotonde chiamate aish, che è anche sinonimo di vita.
L’Egitto infatti è il più grande importatore al mondo di grano. Ma fa compere soprattutto in Russia e Ucraina, per l’85% delle sue importazioni.
Non a caso alla fine della scorsa settimana il primo ministro egiziano Mostafa Madbouly ha convocato una sessione speciale del suo gabinetto per fare il punto su come l’invasione russa dell’Ucraina potrebbe interrompere le forniture di farina e far salire i prezzi nel Paese più popoloso del mondo arabo (102,2 milioni di abitanti).
Il governo egiziano spende miliardi di dollari ogni anno per sovvenzionare le spese sul pane: qualsiasi shock ai prezzi globali del grano potrebbe essere un duro colpo non solo per lo stomaco degli egiziani, ma anche per il bilancio nazionale del Paese.
Ma l’Egitto non è un caso isolato. L’anno scorso il Medio Oriente ha importato più di 36 milioni di tonnellate di grano, secondo un’analisi del Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti. E la maggior parte proveniva, ancora una volta, da Russia e Ucraina.
Dal Cairo a Teheran, il timore è che la guerra portata dalla Russia in Ucraina possa far salire notevolmente i prezzi del grano, portando con sé proteste popolari contro i governi in carica. Anche perché nella maggior parte dei casi si tratta di economie già gravate dalla pandemia, dalla siccità e da altri conflitti.
L’anno scorso l’Iraq ha vissuto una stagione di grandi proteste di piazza legate – anche – all’aumento dei costi del cibo. In Marocco, dove la peggiore siccità degli ultimi tre decenni ha spinto al rialzo i prezzi dei generi alimentari, la crisi ucraina ha fatto aumentare l’inflazione, provocando nuove proteste. La Tunisia aveva grosse difficoltà a pagare le sue importazioni di grano già prima dell’invasione dell’Ucraina, adesso si prospetta uno scenario tetro anche per il piccolo Paese mediterraneo.
Inoltre, i mercati delle materie prime agricole sono globali, e allora qualsiasi riduzione dell’offerta di grano potrebbe far aumentare la domanda e i prezzi del grano coltivato in altre parti del mondo, tra cui Australia, Argentina e nel Midwest americano.
Al momento, il più grande alleato della Russia – anche sul grano – potrebbe essere la Cina. Pechino importa enormi quantità di mais, orzo e sorgo per l’alimentazione animale dai mercati mondiali. Potrebbe scegliere di acquistare quei prodotti dalla Russia invece che da altri Paesi, ad esempio.
Ma non solo. Giovedì scorso la Cina ha approvato quelle importazioni di grano russo che erano bloccate da tempo a causa di preoccupazioni riguardanti funghi e altri potenziali agenti contaminanti. Preoccupazioni che però sono state facilmente accantonate per spalleggiare l’alleato in un momento così delicato.