È anche questa una gara contro il tempo: così come la resistenza del governo e del popolo ucraino (raramente si trova una consonanza morale e operativa tra un governo e il suo popolo, come oggi a Kiev) ha fatto saltare i programmi di un’invasione talmente breve che avrebbe impedito, di fatto, qualunque aiuto da parte della comunità democratica. Allo stesso modo le sanzioni, ogni giorno che passa, colpiscono e riducono le carte a disposizione di Vladimir Putin per far credere ai russi che in Ucraina non sta succedendo niente. L’impatto delle sanzioni si allarga progressivamente alla vita quotidiana dell’economia russa.
C’è un aspetto finanziario che in questi giorni occupa tutti gli osservatori: riuscirà, vorrà, il governo russo pagare il debito sovrano, e quello delle aziende più grandi, già scaduto in questi giorni? Ha ancora un mese per farlo: se non lo farà, o se vorrà pagare in rubli – che è pressoché un non pagare – ci sarà il default finanziario.
Perché queste sanzioni si stanno rivelando così efficaci? Sappiamo che i tempi militari non coincidono con i tempi dell’economia, e tuttavia stavolta riescono ad avere un impatto più rapido rispetto al passato. La ragione fondamentale non sta solo nella loro entità, nell’immediatezza e nella molteplicità, ma nel fatto che, in questi anni, Putin ha creato un dualismo di cui è presto diventato vittima: da un lato ha riportato indietro la Russia sul fronte della democrazia, della libertà di parola, della contendibilità del potere;dall’altro ha creato una fortissima simbiosi tra l’economia russa e quella occidentale. Simbiosi che è economica, finanziaria e anche di stili di vita e non è facile da strappare e da riportare all’indietro. I carri armati e i missili, oltre a provocare morti e distruzioni, non sono lo strumento adatto a distruggere la simbiosi dei comportamenti, dei pensieri e dei valori. Anzi, li alimentano e li rafforzano.
La certezza dell’efficacia delle sanzioni è determinata dalla struttura stessa dell’economia russa: un modello sostanzialmente fondato sull’esportazione delle materie grezze e l’importazione di tutto il resto. Nella Putinomics le prime voci delle esportazioni sono: petrolio grezzo (30,3%), petrolio raffinato (16,3%), gas (6.5%), carbone (5,4%). Così si arriva a circa il 60% del totale delle importazioni.
La dipendenza della Russia dall’Occidente è enorme: la Cina contribuisce agli scambi solo per il 21,9%, mentre l’Occidente (cioè i paesi definiti dalla Russia “ostili”) viaggia intorno al 60% o più, a seconda di come li classifichiamo. Quello che conta è il dettaglio: se consideriamo i singoli paesi da cui la Russia si approvvigiona, vediamo un quadro variegato: nei veicoli a motore e nei ricambi ai primi posti ci sono Giappone e Germania e la Cina è solo al terzo; nei prodotti farmaceutici e medicinali in generale, ai primi posti sono Germania, Stati Uniti e Francia; nelle macchine specializzate per l’industria (meccanica di precisione) al primo posto è la Cina, ma subito seguono Germania e Italia.
In sostanza, è un’economia che ha bisogno di (quasi) tutto e questo (quasi) tutto, oggi, e ancora per molto tempo, viene dall’Occidente. L’Unione Sovietica era autarchica, come prima o poi sono (o diventano) tutti i regimi totalitari, ma con la globalizzazione avvenuta, l’autarchia regge solo nell’affamata Corea del Nord.
Si obietta che la Cina possa sostituire l’Occidente. Per quanto riguarda l’esportazione del gas, il primo gasdotto diretto Russia-Cina funziona solo dal 2019. È stata decisa da poco la costruzione di una nuova linea (Power of Siberia 2), grande il doppio rispetto alla prima, ma non sarà semplice e immediato mettere in piedi 2.600 km di gasdotto. Così come non sarà facile per la Cina passare dall’attuale 8,8% di prodotti chimici importati a un livello che compensi la riduzione occidentale. Lo stesso si può dire per i beni intermedi (che servono alla produzione dei beni finali), dove la quota cinese è oggi del 17,3% o, ancora più significativamente, nella produzione dei beni di consumo, la cui quota cinese è al 21,1%. È probabile che la Cina alla lunga possa sostituirsi, in parte, alle forniture occidentali, ma è difficile che riesca a farlonella misura e in un tempo sufficiente per evitare una scarsità generalizzata. Bisognerà poi considerare che un sostanziale sostegno della Cina a Putin comporterà, a sua volta, un rallentamento, se non un’interruzione, degli scambi della Cina con l’Occidente.
Se ciò avvenisse saremmo di fronte alla creazione di una doppia globalizzazione, nella seconda delle quali ci sarebbero Cina e Russia insieme. L’economia russa è circa undici volte inferiore rispetto a quella cinese, perciò più che un partner, sarebbe un paese vassallo; inoltre, le due monete da integrare, yuan e rublo, non sono monete per lo scambio internazionale o che oggi possano servire a conservare valore (funzione indispensabile di ogni moneta). In sostanza, una seconda e alternativa globalizzazione della Cina che si fermi alla Russia e pochi altri Paesi sarebbe insostenibile proprio per la Cina. C’è l’India, ma poco lascia pensare che aderisca a una improbabile globalizzazione russo-cinese lasciando quella occidentale.
Una globalizzazione è pensabile se ha una o più monete condivise all’interno dell’area globalizzata. Oggi il rublo non è una moneta di scambio nel commercio internazionale e neppure quella cinese. Anche se la seconda, ovviamente, non ha oggi un’emergenza rispetto al suo valore corrente: il 14 febbraio un rublo valeva 0,012 euro e il 7 marzo ha toccato il valore 0,0061. Adesso la Banca centrale russa è corsa in suo aiuto (valore del rublo il 17 marzo 0,0087), ma durante la crisi del 2014, ha speso circa il 40% delle sue valute di riserva per evitarne la caduta. Adesso le riserve russe sono di 640 miliardi di dollari, ma circa 300 sono congelati e non disponibili, perché collocati in Occidente. In generale, la banca centrale russa può far poco: potrebbe solo stampare rubli, ma più ne stampa, più accelera il declino del suo valore.
Anche sul piano finanziario teoricamente potrebbe essere la Cina a comprare il debito russo, fare dei prestiti o comunque sostenere il debito sovrano russo e quello delle sue imprese. La domanda è: lo farà? Lo farà nelle dimensioni necessarie? Ha convenienza a farlo?
È evidente che la Cina segue un criterio di valutazione economica non solo di mercato, ma politico. Sul piano del mercato comprare un debito declassificato è però qualcosa che nessuno suggerirebbe. Lo stesso avviene per il sistema di messaggistica dei pagamenti, il sistema SWIFT, da sostituire con quello cinese (CIPS) o, addirittura, passare alle cripto monete per i pagamenti. Passaggi molto complicati, con grandi problemi tecnici e giuridici, non facilmente risolvibili. Il governo iraniano, per sfuggire al boicottaggio occidentale, utilizza un sistema di pagamenti alternativo allo SWIFT, ma non sembra funzionare granché. Le istituzioni finanziarie internazionali, le procedure del trade e le consuetudini pratiche non sono facilmente sostituibili o eludibili.
Mettendo insieme la dipendenza strutturale dell’economia russa, la difficile e piena sostituzione della Cina come partner a tutto campo dell’economia russa, l’ancora più difficile costruzione di strutture alternative anti-occidentali sul commercio e la finanza internazionale, si capisce bene che le sanzioni abbiamo colpito e possano colpire ancora più fortemente il governo russo.
L’economia non è che un altro modo di vedere (e raccontare) i rapporti sociali, perciò quello che ci mostra è come sia impossibile (o pagando un prezzo inaccettabile) riportare indietro la storia, riconvincere i russi che la società sovietica o persino quella zarista siano meglio della seppur limitata democrazia che i Russi hanno vissuto da Eltsin fino a oggi. Su questo impossibile ritorno al passato, la resistenza ucraina ha valore oltre la dimensione militare, pur fondamentale, e abbraccia ogni cosa.