Gli interminabili chilometriTutto quello che ho visto nel mio viaggio per salvare i profughi

È una storia di lunghi tragitti, viaggi, albe rosse e fredde, frontiere, documenti e incontri semplici e parole appena imparate. Diario di una persona che ha scelto di non rimanere a guardare

di Sergio Pilu

Sono le 4.50 di un mattino di marzo quando mi fisso nello specchio del bagno di un oratorio della profonda provincia rumena. A fianco ho un ragazzino dagli spettacolari capelli rossi che qualche ora prima mi ha insegnato a contare fino a dieci in ucraino: mi saluta nella sua lingua con una voce meno impastata della mia, io rispondo in italiano e lui ripete il mio buongiorno ascoltando il suono delle parole, probabilmente perché sa che da domani gli servirà più di quanto si sarebbe mai aspettato. Mentre torno verso il mio zaino mi chiedo come sia stato possibile trovarci qui.

L’invasione russa dell’Ucraina è iniziata il 24 febbraio. Una settimana dopo ero in compagnia di una dozzina di uomini e donne che avrebbero dedicato buona parte dei giorni successivi a raccogliere, inscatolare ed etichettare in tre lingue e due alfabeti una inimmaginabile quantità di cibo, coperte, pannolini, medicinali portati da una altrettanto inimmaginabile quantità di persone. Molte di queste si sarebbero rese disponibili a prestare il loro tempo e i loro mezzi per trasportare quella montagna di materiali agli hub, da dove partivano i primi convogli verso gli interminabili confini di quel Paese.

Da lì in poi sarebbe stata solo una questione di gradi di separazione, che notoriamente sono molti meno dei famosi sei. Tralascio i passaggi intermedi. Sta di fatto che l’amica, alla quale avevo detto di tenermi presente se avesse sentito in giro di missioni verso l’Ucraina, una sera mi scrive per allertarmi. Due sere dopo mi aggiunge a una riunione organizzativa su Zoom e due giorni dopo ancora mi si siede a fianco come copilota. Il furgone lo aveva prestato senza battere ciglio un altro amico, per permetterci di unirci al convoglio di otto mezzi e due ambulanze organizzato dalla Onlus Maisha Marefu, con il sostegno del comune di Arese, per portare più o meno una tonnellata di materiali in territorio ucraino.

Non le ho chiesto perché era lì, come non l’ho chiesto agli altri autisti: ognuno aveva i suoi motivi, tutti nobili e sporchi al tempo stesso come le cose degli esseri umani. Per me valeva il fatto che, semplicemente, non volevo stare a guardare, come avevo fatto quando Vukovar veniva distrutta e Srebrenica sterminata, a dimostrazione che tante volte le cose buone per gli altri si fanno per far star bene, o un po’ meno male, se stessi.

Nei tre giorni e mezzo successivi sono successe un po’ di cose. Abbiamo guidato per cinquantotto ore e tremilasettecento chilometri, attraversando Slovenia, Ungheria e Romania – prima verso est e poi di ritorno a ovest – dormendo in totale sette ore. Siamo arrivati al confine rumeno di Siret, dal quale si entra a Hlyboka, nel sudovest dell’Ucraina, una delle poche zone del Paese dove la guerra vera non è ancora arrivata (se si esclude il bombardamento di un aeroporto). Ci siamo nutriti di taralli al finocchio, abbiamo fatto gasolio in sperdute aree di servizio ai piedi dei Carpazi, ci siamo sgranchiti le gambe a tredici gradi sotto zero in un’alba che meritava pensieri diversi.

Abbiamo attraversato il corridoio dei militari rumeni e costeggiato l’area nella quale si affollano gli inviati delle televisioni e si concentrano le tende delle ONG che prestano la prima accoglienza ai profughi che escono dall’Ucraina. Abbiamo spiegato chi eravamo alla polizia di frontiera ucraina e abbiamo aspettato ore perché questa venisse a capo delle carte, che dovevano essere convertite in informazioni da inserire in un software sviluppato da Bill Gates quando andava al liceo. Abbiamo visto le colonne di persone che a piedi e con la vita dentro un trolley lasciavano le loro case senza sapere se sarebbero mai tornate. Ci siamo accodati a un mezzo della polizia che ci ha scortati lungo la strada che attraversa l’oblast di Černivci. Abbiamo scaricato centinaia di scatoloni componendo due catene umane al termine delle quali c’erano dei ragazzi di forse quindici o sedici anni, non ancora costretti a emigrare e non ancora arruolabili.

Abbiamo guardato un tramonto rosso da far piangere mentre una donna diceva guarda quella striscia là in fondo, è una nuvola ma potrebbe essere una bomba. Siamo entrati nella cittadina ormai svuotata dei suoi abitanti, dove le sole luci accese sono quelle dei semafori, facendo lo slalom tra i jersey ricoperti di sacchi di sabbia in attesa dei russi. Siamo stati costretti ad accettare una cena sontuosa, che sospettiamo sia stata preparata con le penultime vettovaglie disponibili, vergognandoci di approfittare dell’ospitalità che ci veniva data da gente che ci aspettava da ore quando non da giorni per scappare dalla guerra. Abbiamo aperto i portelloni dei furgoni e fatto entrare quasi una quarantina di persone, in larga maggioranza donne e bambini, cercando di distogliere gli occhi dagli uomini che salutavano mogli e figli ricacciando in gola le lacrime, peraltro senza riuscirci. Ci siamo presentati, cercando di imparare i nomi e provando a conoscerci e capirci grazie a Google Translate («S., sei tormentato?» – «No Oksana, forse volevi dire stanco. Sì, un po’. Ma non troppo, stai tranquilla»).

Abbiamo ammirato silenziosamente la dignità, la compostezza e persino l’allegria dei nostri passeggeri pensando che noi, se ne possedessimo giusto un decimo saremmo a posto per sempre. Abbiamo giocato a pallone con i bambini in un’area di frontiera aspettando sette ore che i doganieri ungheresi si degnassero di dare un’occhiata alle centinaia e centinaia di famiglie che stavano andando verso ovest (e, per la cronaca, la mia squadretta italoucraina ha vinto ai rigori grazie al ragazzino dagli spettacolari capelli rossi).

Alla fine, siamo arrivati in Italia. Ognuno è andato alla sua destinazione finale. Io, con la mia amica, mi sono trovato a San Giuliano Milanese, nel parcheggio di un’azienda di trasporti dove una nonna mi è corsa incontro e mi ha abbracciato così stretto da farmi perdere il fiato e nel suo italiano accidentato mi ha detto grazie mi hai riportato la mia vita e la vita erano i suoi nipoti e le sue figlie, e io non sapevo cosa dire perché cosa cazzo vuoi dire, e mi sono fatto abbracciare, e l’ho abbracciata, e le ho detto andrà tutto bene. Già.

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