Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, quello del canale della Manica. Malgrado le sanzioni roboanti e un interventismo che posiziona di diritto il primo ministro Boris Johnson tra i “falchi” dello schieramento occidentale, il Regno Unito è l’unico Paese europeo (in senso geografico) a richiedere un visto per accogliere i profughi ucraini.
È l’eredità della Brexit, con le sue strette migratorie, ma anche l’indice del rapporto irrisolto tra la Russia e “Londongrad”, come viene chiamata l’enclave sul Tamigi degli oligarchi, che sono tra i più munifici donatori del partito conservatore al potere.
Un corridoio umanitario per chi scappa dalla guerra c’è, ma non è (ancora) paragonabile alla mobilitazione dell’Unione europea. Soprattutto, è il risultato di una serie di correzioni che hanno rattoppato uno schema inqualificabile.
L’esecutivo aveva inizialmente aperto solo ai ricongiungimenti: per ottenere il permesso, cioè, era necessario avere un familiare nel Paese. Downing Street ha ritrattato per l’indignazione tanto internazionale quanto, va detto, interna, dalla società civile ai deputati Tories.
Le novità sono state introdotte solo lunedì, in colpevole ritardo, dopo quasi venti giorni dall’invasione russa. Ora possono fare domanda anche le persone senza un parente nel Regno Unito, purché vengano «sponsorizzate» – il termine è atroce – da un cittadino o da un ente britannico. Il visto ha una durata di un anno.
Per facilitare queste connessioni, ci sarà un portale online, dove potranno registrarsi sia i rifugiati sia i potenziali ospiti. Dopo alcune verifiche, che certo non sveltiranno la trafila, avviene un match, un po’ come nelle app di dating.
In un primo momento, l’esecutivo ha stimato di aiutare 200mila ucraini con questo programma (poi ha chiarito che non ci sarà un tetto numerico). Una cifra ridicola rispetto alla fuga di massa di quasi tre milioni di persone, quando la Polonia ha già accolto 1,7 milioni di profughi e nazioni più piccole, come Ungheria e Slovacchia, da sole, ospitano già più gente di quanta calcolava di accettarne il Regno Unito nei prossimi mesi.
La vecchia strategia, quella basata sui ricongiungimenti, al 9 marzo aveva concesso solo poco più di mille visti.
Il sistema burocratico dell’Home Office era oberato già prima della crisi. Dal 2014 è raddoppiato il numero di richiedenti asilo bloccati in attesa che venga riconosciuto il loro status. E il dato risale a prima del ritiro dall’Afghanistan. Nel 2021, Londra aveva già indurito la legislazione contro i migranti illegali, arrivando a prevedere il carcere in una sbandata securitaria. Bruxelles, invece, ha adottato una direttiva che permette di entrare nell’Unione europea senza visti. Si scrive «protezione temporanea», si legge frontiere aperte non solo a parole.
Ora Downing Street prova a riscattarsi. Chi ospiterà gli ucraini riceverà un sussidio di 350 sterline al mese, mentre alle amministrazioni locali andranno 10.500 sterline aggiuntive per ogni rifugiato, in modo da coprire i servizi di base. Con pragmatismo british, ai profughi viene garantito il diritto di residenza, ma soprattutto quello di lavorare: colossi come Marks&Spencer, Asos e Lush si sono impegnati a fornire posti di lavoro.
Il governo lavorerà per mettere a disposizione degli ucraini le case confiscate agli oligarchi, ha annunciato il ministro Michael Gove. Nel caso dell’ex patron del Chelsea, Roman Abramovich, significherebbe un impero immobiliare di 70 proprietà, dal valore di mezzo miliardo di sterline. Tra queste, la dimora da quindici camere da letto sui giardini di Kensington Palace, a poca distanza dall’ambasciata russa. Tra i “pallonari”, c’è anche Alisher Usmanov, signore dell’industria mineraria, che in passato aveva investito in altri colori della capitale, quelli dell’Arsenal.
L’attivismo tradisce il fatto che Londra sta cercando di recuperare il terreno perduto in decenni di permissività. Le sanzioni draconiane si sono abbattute su oligarchi che erano già sulla lista nera di Unione europea e Stati Uniti. Nell’ultimo elenco, fa notare il New York Times, non compare neppure metà dei 35 nomi segnalati da Aleksei Navalny, il nemico pubblico numero uno del Cremlino, in carcere proprio perché ha denunciato la cleptocrazia di Mosca. Inoltre, i provvedimenti sono stati firmati – e resi quindi operativi – giorni dopo l’annuncio: c’è stato tempo per spostare eventuali capitali.
Una delle tattiche per comprarsi una patente di rispettabilità è la filantropia. Sciacquare denaro sporco, o di dubbia provenienza, nel Tamigi ha finanziato alcune delle più antiche istituzioni culturali inglesi, dalla Royal Society of Arts ai musei e gli atenei più prestigiosi. Anche se ora l’esecutivo promette di contrastare il riciclaggio con una nuova legge, l’Economic Crime Bill, i capitali finanziari hanno sempre trovato un’accoglienza migliore di quella riservata ai migranti nella metropoli, magari prima di spostarsi verso qualche paradiso fiscale. Ma uno dei fili più preoccupanti tra gli oligarchi e il Regno Unito passa dal partito al governo.
È di provenienza russa un decimo delle donazioni private incamerate dai conservatori. Si tratta di 1,93 milioni di sterline su una raccolta di 20 milioni all’anno. In cima a questa classifica c’è la moglie di Vladimir Chernukhin, ex viceministro delle Finanze russo, che ha versato in totale 1,6 milioni di sterline, tra le altre cose per una cena da 135 mila pound con l’allora premier Theresa May nel 2019, e per una partita a tennis con David Cameron e Johnson, quando il primo era a Downing Street e il secondo non ci era ancora traslocato – era ancora sindaco di Londongrad. Pardon, di Londra.
Un’altra amicizia imbarazzante di Boris è quella con Evgeny Lebedev, figlio di un ufficiale del Kgb. Era già tra i press baron inglesi, perché possiede sia l’Evening Standard sia l’Independent, rispettivamente il quarto quotidiano inglese per diffusione e un autorevole giornale diventato digitale. L’ha reso baronetto Johnson, che in passato ci ha fatto festa tra le colline umbre, con la nomina alla Camera dei Lord nel dicembre 2020.
L’influenza russa, nei circoli del potere, rappresenta il new normal, la nuova normalità. Lo ha messo nero su bianco un’indagine parlamentare dove si legge: «Ci sono tantissimi russi con legami molto stretti con Vladimir Putin che sono molto integrati nella società e nell’imprenditoria britanniche e accettati in virtù della loro ricchezza». Sono arrivati, per non andarsene più, al collasso dell’Unione sovietica, con miliardi da investire, ingolositi dallo shopping.
Dal 2016, beni per un valore di due miliardi di sterline sono stati comprati da russi accusati di corruzione o considerati vicini al Cremlino: 379 di questi milioni sono stati spesi nei quartieri più “in” della capitale, Kensington e Chelsea. Quell’era è finita, almeno nelle dichiarazioni della politica. A Kensington hanno rimosso l’aggettivo “russo” dall’insegna del Russian Hair Extensions, un salone esclusivo. Alla classe dirigente Tory non basterà così poco.