«Non abbiamo in programma di attaccare altri Paesi, non abbiamo nemmeno attaccato l’Ucraina». Il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov si è presentato alla conferenza stampa al Regnum Carya Hotel di Antalya, in Turchia, con la faccia del giocatore di poker, come se queste settimane fossero un passaggio normale nella storia della Russia, dell’Europa, del mondo. Sembra di riascoltare le sue stesse parole alla Conferenza di Monaco, nel 2015, quando disse che in Crimea la Russia non aveva fatto nulla di illegale.
In un altro giorno potenzialmente decisivo che poi non si è rivelato tale – come praticamente tutti i precedenti – Lavrov si è limitato a ribadire la posizione del suo Paese – «abbiamo risposto a una minaccia alla Federazione russa» – e ha accusato la controparte Occidentale, sottolineando che il Pentagono ha creato laboratori in Ucraina «per sviluppare armi biologiche». Accusa ovviamente già smentita dagli Stati Uniti.
Avrebbe mentito di nuovo dicendo che «lo sforzo per i corridoi umanitari della Russia resta», perché sono giorni che ogni tentativo di far evacuare i civili deraglia sotto i colpi dell’artiglieria russa.
Lavrov è come l’allenatore di calcio aziendalista che difende le scelte del club anche quando gli vendono il centravanti prediletto. È uno degli uomini di fiducia di Vladimir Putin, guida il ministero degli Affari esteri dal marzo 2004 e sa sempre cosa chiede il presidente. Ma è ormai di pubblico dominio la notizia che lo vedrebbe quanto meno scettico sull’invasione dell’Ucraina.
Per uno abituato a fare l’equilibrista tra gli eccessi del Cremlino e l’etichetta dei vertici internazionali, l’offensiva verso l’Ucraina rappresenta uno scossone difficile da assimilare. E infatti fin primi giorni dell’invasione la sua presenza si è fatta sempre più sbiadita, per poi riapparire perfettamente allineato al regime: non che ci siano molte alternative, alla corte di Putin.
Negli ultimi due decenni Lavrov è stato l’uomo incaricato di tradurre nel linguaggio della diplomazia le ambizioni geopolitiche dello zar. A volte grazie alle sue capacità qualcuno lo ha fatto passare per una colomba piuttosto che un falco, probabilmente prendendo una cantonata. Il ministro russo ha sempre saputo dialogare con l’Occidente nonostante le divergenze apparentemente insormontabili. In un articolo del 2013 il New York Times scriveva di lui: «È un burocrate, è un buon diplomatico e non dirà mai nulla che contraddica la linea ufficiale del Cremlino».
Diplomatici e ministri degli esteri di tutto il mondo lo dipingono come un diplomatico duro, affidabile ed estremamente sofisticato, dedito al lavoro.
Nel diario in cui racconta i suoi anni alla Farnesina e a Palazzo Chigi, Paolo Gentiloni lo definisce «sornione e spiritoso […] l’uomo più intelligente mai conosciuto» (“La sfida impopulista”).
L’ex ministro degli Esteri austriaco, Ursula Plassnik, ha definito Lavrov «uno degli attori di politica estera più informati e rispettati nel panorama globale», uno che durante la sua prima visita a Mosca l’aveva accolta con un mazzo di rose gialle. E sono ormai famose le sue lunghe chiacchierate – passeggiando o accomodati in poltrona – con l’ex Segretario di Stato americano John Kerry, con cui di certo non può dire di condividere visioni politiche.
Tuttavia, maneggiare l’arte della diplomazia significa anche sapersi costruire una posizione di forza al momento del faccia a faccia. Nella cassetta degli attrezzi di Sergej Lavrov non mancano i toni duri e le accuse dirette. E a volte deve essere impassibile più di ogni altra persona nella stanza: dopotutto il soprannome di Mr. Niet (Mr. No) non gli sta così male.
È passato appena un mese da quando ha tentato di ridicolizzare il ministro degli Esteri britannico Liz Truss per la sua scarsa conoscenza della geografia russa. E circa un anno fa aveva voluto umiliare l’Alto rappresentante per la politica estera dell’Unione europea, Josep Borrell, espellendo dalla Russia un gruppo di diplomatici europei – colpevoli di aver partecipato a manifestazioni a sostegno di Aleksej Navalny – poco prima di un incontro bilaterale.
Sergej Viktorovič Lavrov è nato a Mosca il 21 marzo 1950 e ha iniziato la carriera nel 1972 dopo essersi laureato all’Istituto di Relazioni Internazionali dell’Università di Mosca, centro di formazione d’eccellenza della scuola diplomatica moscovita.
Il primo lavoro è stato quello di segretario nella sezione per le relazioni economiche internazionali dell’Unione sovietica; poi Consigliere sovietico all’Onu per quasi un decennio, negli anni ’80. E nella neonata Federazione russa ha iniziato come viceministro degli Affari esteri, prima di tornare all’Onu nelle vesti di ambasciatore della Russia. Poi dal 2004 è diventato ministro di Putin. Basterebbe il suo curriculum per intuire che non rientra nello stereotipo del funzionario pubblico sovietico appiattito sulle idee del partito.
Lavrov parla perfettamente quattro lingue: inglese, francese e singalese, che imparò per il suo primo incarico all’estero, in Sri Lanka, oltre il russo. Ha una passione per il rafting, il calcio, la poesia, il whisky e ovviamente i sigari, che lo portarono allo scontro con il segretario generale dell’Onu Kofi Annan, che aveva deciso di proibire il fumo nel Palazzo di Vetro.
Per Lavrov la diplomazia può essere un’arma fondamentale per un Paese grande e militarizzato come la Russia. D’altronde era lo strumento prediletto di uno dei suoi punti di riferimento della storia politica russa: il Principe Aleksandr Gorčakov, ministro degli esteri al servizio dello zar dal 1856 al 1882, era riuscito, nelle parole di Lavrov, «a gestire il ripristino dell’influenza russa in Europa dopo la sconfitta nella guerra di Crimea, e lo fece senza ricorrere alle armi ma esclusivamente attraverso la diplomazia».
Oggi però il suo atteggiamento pare averlo reso quasi un outsider nel governo russo, ai margini della cerchia di Putin. Oltre al danno anche la beffa: è sembrato ancora più debole politicamente quando, la settimana scorsa, la maggior parte del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha disertato la sala mentre Lavrov cercava di difendere l’invasione della Russia durante un collegamento video.
Probabilmente in questa fase il ministro degli Esteri sta semplicemente aspettando che passi la marea, in attesa del suo turno.
Sa che non può interferire con le dinamiche del Cremlino, non può remare in direzione opposta a quella di Putin, così accetta di ridurre il suo incarico a quello di portavoce di decisioni già prese. Allora per adesso Lavrov mette la sua esperienza al servizio di strategie che – con buona probabilità – non condivide, o non del tutto. Da ultimo lo dimostrano le dichiarazioni del ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba dopo l’incontro a porte chiuse in Turchia con Lavrov. «Mi ha detto, guardandomi negli occhi, che le foto delle donne incinte scattate in mezzo alle macerie erano fasulle, e che la Russia aveva colpito l’ospedale pediatrico perché l’esercito russo era assolutamente sicuro che era sotto il controllo dell’esercito ucraino».