Michele Serra formulava ieri su Repubblica una domanda retorica: cosa succederebbe se l’Unione europea decidesse di tenere il suo prossimo vertice a Kiev, sotto le bombe? Se cioè «i ventisette ministri degli Esteri, o meglio ancora i ventisette premier, facessero della propria presenza fisica un’arma, anzi una testimonianza ben più forte di un’arma: che effetto farebbe, sulla scena del pianeta?».
Qualche giorno fa Tomaso Montanari scriveva sul Fatto quotidiano (28 febbraio) e poi ripeteva su La7 (2 marzo) che a Kiev «dovrebbe riunirsi la stessa Commissione europea in carne e ossa, con i capi di Stato e di governo: come segno potente di vicinanza e di interposizione simbolica».
Tre giorni fa Fabrizio Barca twittava: «“Fermare l’aggressore” è certo l’obiettivo ed è ciò che può ridare pace e vita civile agli ucraini. Ma come farlo? Mettendo armi nelle loro mani standosene a casa o affiancandoli sul campo a mani nude per acquisire l’autorevolezza per trattare?».
L’elenco potrebbe continuare, ma non penso ce ne sia bisogno. Prima di andare al merito delle proposte, che definirei letteralmente disarmanti, mi permetto solo un paio di notazioni, diciamo così, psicologiche.
Anzitutto, cosa spinge Barca a ritenere che chi in questo stesso momento sta ammazzando centinaia di civili inermi dovrebbe fermarsi davanti alle nostre «mani nude», anzi restarne talmente ammirato da posare subito il fucile e riconoscerci pure l’«autorevolezza per trattare»? Forse ritiene che a guidare gli attacchi contro la popolazione ucraina sia Immanuel Kant, ma basterebbe accendere la tv per vedere che non è così. E mi pare anche discutibile il tono di sufficienza, forse anche vagamente paternalistico, con cui Barca parla degli ucraini e della decisione europea di mettere armi «nelle loro mani standosene a casa».
Ci sarebbe poi da dire qualcosa sull’involontaria ironia del passaggio in cui Serra parla dei pacifisti «il cui svantaggio politico, in tempo di guerra, è di cruda evidenza», che mi sembra un po’ come lamentare lo svantaggio dei vegetariani all’ora di pranzo. Per non parlare di quando invoca «il coraggio, la tenacia, la fantasia che servono per sovvertire lo stato delle cose (a vantaggio del quale, va sottolineato, non gioca la presente situazione di guerra)». I problemi del mondo hanno effettivamente questa dispettosa inclinazione a non giocare a favore delle nostre idee. Ma questo dovrebbe essere semmai un motivo per riconsiderare le nostre idee, non per prendersela col mondo, non vi pare?
Si tratta di contraddizioni indicative, prima che di un modo di pensare, di un modo di sentire. Mi domando insomma con quale spirito, proprio nel momento in cui i governi europei compiono un passo significativo come la scelta di inviare armi all’Ucraina, tanti autorevoli intellettuali progressisti si sentano di invitarli a ripensarci, e ad andarci di persona, piuttosto, a Kiev.
Mi domando se al fondo questi discorsi non somiglino a quelli di chi, quando si parla di accoglienza e diritti dei profughi, invita i politici a prenderseli in casa loro. Come se il compito di chi guida un governo fosse quello di compiere gesti simbolici, anziché cercare soluzioni realistiche a problemi concreti (avvertenza ai futuri commentatori eventualmente tentati di rispondermi con un temino su quale sia il vero «realismo»: mentre migliaia di persone sono sotto le bombe, realistico è quel che ha maggiori chance di salvarne il più alto numero nel tempo più breve, irrealistico è tutto il resto).
Ciò detto, resta la questione morale. Per farla breve, io la vedo così: schierarsi a mani nude contro gli invasori è un atto di eroismo; invitare altri a farlo è assai meno eroico. Ma fare questi discorsi nel momento in cui si discute di come aiutare chi sta combattendo per difendere la propria vita e quella dei propri cari – e non ci chiede disperatamente belle parole, come aiuto – è anche peggio.
Agli intellettuali di sinistra che invitano i leader europei a sfilare sotto le bombe vorrei infine segnalare una notizia, che evidentemente dev’essere loro sfuggita. E cioè che il primo politico italiano a proporre una marcia disarmata a Kiev è stato Matteo Salvini. Con una piccola differenza, va detto, a onore di Salvini: che almeno lui ha avuto il buon gusto di dire «andiamo», non «andate».