Talking BookStevie Wonder e l’invenzione dell’elettronica soul

Il suo disco del 1972 è musica sintetica che non ha niente di freddo, l’insieme è coeso e morbido, fluido e scorrevole e segna l’avvenuta maturità dell’artista. Read & Listen

Stevie Wonder “Talking Book” 1972

La maggiore età è sempre un momento importante nella vita, ma per Stevie Wonder quel momento, oltreché simbolico, è davvero un momento decisivo per la sua vita e la sua carriera. Il 13 maggio del 1971, Stevland Hardaway Morris compie 21 anni, e in base agli accorsi siglati dieci anni prima è libero dal contratto che lo ha legato alla Motown fin da quando il suo primo produttore, Clarence Paul, lo ha soprannominato “little Stevie Wonder”. Perfettamente a ragione. Perché quel ragazzino nato a Saginaw, Michigan, e poi trasferitosi con la mamma a Detroit, nato prematuro e a cui l’ossigeno dell’incubatrice ha causato il distacco della retina e la cecità, quando si presenta a 11 anni a un provino alla Tamla Motown, è davvero un prodigio: oltre a cantare suona piano, batteria, armonica.

Nella hit machine di Berry Gordy, allora ancora agli inizi, sfonda quasi subito: dopo due album Poco venduti, il ptimo un tributo a Ray Charles “Tribute To Uncle Ray” e l’altro strumentale, “The Jazz Soul of Little Stevie”, si ritrova in una delle Motown Revues che attraversano gli Stati Uniti nei teatri del chitlin’ circuit, il circuito per soli neri. Al Regal Theatre di Chicago (dove B.B.King ha inciso il suo album più celebrato) chiude i 20 minuti del suo segmento tornando per un bis e improvvisando (col bassista che si sente urlare «in che chiave? in che chiave?») un pezzo di armonica e vocalizzi chiamato “Fingertips”. Quel bimbetto vestito a puntino e con gli occhialoni incanta il mondo come oggi potrebbe farlo il vincitore di un talent. È un numero uno nel 1963, Steve è ancora oggi il più giovane performer ad essere arrivato in cima.

Gli anni successivi sono fatti di alti e bassi, l’etichetta lo sta quasi per mollare quando la sua voce da bambino diventa più matura, ma nel ’65 ritorna in cima con “Uptight (Everything’s Alright)” scritto insieme a Silvia Moy, la prima donna produttrice alla Motown, e poi una serie di hit fine anni ’60 (“I Was Made To Love Her”, “For Once In My Life” e “Signed, Sealed, Delivered, I’m Yours”, “My Cherie Amour”, “Yester-me, Yester-you, Yesterday”) ne cementano la popolarità, che passa anche per un Sanremo 1969 in coppia con Gabriella Ferri e una manciata di singoli più un Lp cantati in italiano, come facevano tante star anglo-americane di allora.

Ma al virare dei 21 anni, la piccola meraviglia si sta trasformano nel piccolo genio che lascerà la sua impronta sugli anni 70 della black music. Il titolo del suo ultimo Lp “da minore”, “Where I’m Coming From”, rivela l’ambizione e l’obiettivo, quello di fare una musica personale che non sia indirizzata e gestita dall’etichetta e dal padre-padrone Berry Gordy. Scritto con Syreeta Wright, che diventerà poi sua moglie, anche se il risultato non è gran cosa mostra l’intenzione di scrivere anche di temi personali e sociali. Come l’album che esce contemporaneamente sull’etichetta, “What’s Going On” di Marvin Gaye.

Marvin è già grande, ha dieci anni di più, e la sua ribellione ai paletti della Motown su canzoni che trattino della “protesta” è portata a termine con enorme successo: si può parlare di guerra, inquinamento, razzismo. Dal suo punto di vista, come ha scritto Carol Cooper su Pitchfork, «la Motown lo chiamava genio da quando aveva 12 anni, ma sembrava riluttante a dargli la libertà per poterlo provare». L’album di Gaye e il suo nuovo contratto, liberatorio, per Stevie sono la conferma che si può fare: si può andare verso un r’n’b/soul diverso dal pop nero standard, che parli anche dei temi della vita quotidiana degli afro-americani, che è la stessa strada che – ognuno a suo modo – hanno preso in quegli anni anche Isaac Hayes, Curtis Mayfield, Sly Stone, Nina Simone e altri ancora, tutti ispirati dal godfather James Brown. Essere neri, esserne orgogliosi, e fare musica di conseguenza.

Quando un paio di mesi dopo Wonder compie i fatidici 21, cambia tutto. Ridiscute con la Motown il suo contratto, che in 120 pagine elenca il suo nuovo status: royalties molto più alte, ça va sans dire, e totale libertà creativa, compresa quella di poter incidere dove e come vuole lui. Ma tutto questo non sarebbe abbastanza, se non fosse per un incontro di quelli che cambiano la vita.

La scintilla scocca quando Wonder sente per la prima volta “Zero Time”, il pionieristico primo album elettronico della Tonto’s Expanding Head Band, duo composto da un bassista jazz e produttore inglese, Malcom Cecil, e Robert Margouleff, americano, anche lui produttore e programmatore e tecnico del suono. I due condividono la passione per l’elettronica, e T.O.N.T.O., che sta per The Original New Timbral Orchestra, è un sintetizzatore analogico multi-timbrico e polifonico: «La polifonia multi-timbrica è diversa da quella che offrono i sintetizzatori odierni», spiegò ai tempi Cecil, «in cui spingi un tasto e hai gli archi. Per me multi-timbrico vuol dire che ogni nota che suoni ha un tono diverso, come se venisse da strumenti diversi». Il TONTO in verità non è un solo sintetizzatore, ma una vera orchestra elettronica, l’insieme (in forma circolare, con un diametro di sei metri e alto due, lo strumentista al centro) di una serie di macchine fra cui due Moog modulari Serie III, quattro Oberheim, due ARP 2600, sequencer, theramin e una serie di altri sintetizzatori e percussioni come il Serge, l’EMS, Roland e Yamaha, più alcuni costruiti da Cecil stesso. Una sorta di Colosseo del suono.

Wonder ne è entusiasta, «che cosa grandiosa avere a disposizione la tecnologia e la scienza nella musica al più alto livello», ancora più colorito sarà il commento alla riedizione dell’Lp negli anni 90 da parte di Mark Mothersbaugh dei Devo (che useranno il TONTO, come lo faranno anche i Weather Report e i Doobie Brothers, i Little Feat e persino Joan Baez): «C’era una volta TONTO, che rappresentava la frontiera avanzata dell’intelligenza artificiale nella musica, Robert e Malcom erano gli chef pazzi della cucina uditiva, che creava chili mentale per gli abbastanza coraggiosi ed affamati».

Come nella definizione, TONTO è il suono che espande la mente del giovane Wonder, lo affascina e gli fa intuire quali possibilità ci siano dietro la fusione fra black music ed elettronica: «Questa collaborazione ha cambiato le prospettive del black pop tanto quanto “Sgt. Pepper” ha alterato il concetto del rock bianco», come ha scritto nel 1984 John Diliberto su Keyboard Magazine, e sono pienamente d’accordo. Non a caso, la stringa di album degli anni ’70 di Wonder, straordinariamente innovativi ed apripista, saranno tutti programmati, registrati e prodotti dal duo e suonati sulla loro TONTO Orchestra. Stevie ha trovato chi può aiutarlo a dare forma alla musica che sente e alle visioni nella sua mente.

Il primo è appunto “Music Of My Mind”, che dentro e fuor di metafora è davvero il nuovo Stevie che sboccia, che svela al mondo la musica che ha in mente. Perché ormai da anni la musica che gli gira intorno è tanta, e se Stevie non vede fisicamente, sicuramente sente in maniera diversa, molto più attenta e percettiva. Ascolta molta musica, anche perché il periodo è quello giusto, è un ascoltatore attento dei suoi tempi. In quegli Lp del decennio precedente, un mix di hit, facciate B e cover, ha spesso guardato oltre al recinto degli autori-Motown, reinterpretando “Blowin In The Wind” e i Beatles (una versione strepitosa di “We Can Work It Out”). Ascolta quello che c’è nell’aria, le nuove star della black e del rock, psichedelico o cantautorale che sia, e come un artista moderno quale si ritiene non vuol finire in una gabbia o una categoria, tanto che il 1972 lo vedrà in tour con gli Stones per aprirsi a un nuovo pubblico bianco.

Questo primo lavoro del nuovo corso, che esce nel marzo 1972, diventa il masterplan per i suoi album successivi: l’apertura “Love Having You Around” è il prototipo del funk midtempo che abbonderà nel suo canzoniere, “Superwoman” è la prima delle ballate swinganti nuova gestione, ritmiche e coretti deliziosi a danzare intorno alla sua voce morbida, “Keep On Running” è il primo di quei funky veloci, treni irrefrenabili, ritmi che ti tirano sù e ti fanno muovere anche se stai dormendo. I brani sono molto più lunghi di prima, arrivano a 7 o 8 minuti, sono delle jam evidentemente costruite e lasciate andare in studio, se il groove funziona chi sono io per interromperlo?

Ma la grande innovazione, è evidente, è il suono: un intreccio, una stratificazione di tastiere che fanno da basso, da linea melodica, da portante ritmica, da solista, magari con un po’ di aggiunte qui e là di controcanti femminili, di armonica e di batteria suonate davvero. E tutto questo, come ben sappiamo, suonato da solo (come l’altro Steve-meraviglia, quello inglese, che l’anno prima stava registrando da solo le tracce che diventeranno poi “John Barleycorn Must Die”). Una incredibile esperienza da one man band, pilotata da Cecil e Margouleff che gli mettono a disposizione qualsiasi timbro, tonalità e pulsare che gli serva.

Il successivo “Talking Book”, parte del quale inciso nello stesso periodo, prosegue sulla stessa linea, ma è ancora più focalizzato e la scrittura è decisamente migliore. Verrebbe da dire che sia musica totalmente (o quasi) elettronica, musica sintetica insomma, ma alla freddezza non ci pensi neanche per un attimo: è tutto così coeso, così fluido e scorrevole, così morbido e così potente quando serve che rimani solo ammirato da quanto il ragazzo sia maturato, quale visione si celi dietro gli occhialoni neri e il suo dondolare estatico la testa quando canta. Non è musica elettronica, mai, è soul della qualità più calda ed empatica, musica che ti abbraccia, non che si fa ascoltare per il suo valore innovativo.

Anche qui troviamo un mix di variazioni sul tema: apre “You Are The Sunshine Of My Life”, in cui la prima strofa è “ceduta” a due suoi coristi, Jim Gilstrap e Lana Groves (curiosa scelta quella di aprire un album nascondendosi): è swingante e leggera, una brezza sotto il sole, congas che creano quel ritmo frizzante, un po’ jazzata, un po’ tropicale.

“Maybe Your Baby” è funk lento e strisciante, sembra la classica pentola che a poco a poco si scalda e ribolle, a ogni fine strofa rallenta e si apre alla voce femminile, «maybe your baby has made some other plans», guarda che forse lei si è già organizzata per conto suo. La chitarra di Ray Parker Jr. è decisamente rock, e aggiunge un elemento di crossover. La voce di Stevie si alza e svisa, si abbassa e carezza, ha una dinamica che gli consente di fare tutto, ed è questa la sua magìa.

“Tuesday Heartbreak” e “You And I” sono due ballate sentimentali, il suo lato che io ho sempre amato di meno, ma di quelle che funzionano alla grande presso il pubblico nero adulto middle-class in cerca di romanticismo all’eccesso, assolo di sax sulla prima (di Dave Sanborn) incluso.

È però un filone di galanteria romantica, fra il cortese e il contemplativo, probabilmente dovuto, oltreché dalla sua anima gentile, anche dalla vicinanza con autrici femminili (c’è anche un’altra Wright, non parente della prima, Yvonne), che è parte integrante della sua personalità. “You’ve Got It Bad Girl” è più uptempo, pop song di quelle che funzionano alla grande in macchina o a bordo piscina, il suo personalissimo stile alla batteria che scorre sotto e fa muovere tutto mentre i synth delicatamente svolazzano a mezz’aria. Ma quando giri facciata, partono i fuochi d’artificio.

Il riff di “Superstition” appartiene, di dovere, alla categoria “questo passa alla storia”. Steve fa partire un riff che potrebbe essere quello di una chitarra di una qualsiasi band di James Brown, solo che il suono è qualcosa di mai sentito. Nasce durante una jam con alla batteria Jeff Beck, chiamato per aggiungere una parte di chitarra in cambio di una canzone per lui: tempo medio antesignano del hip-hop, sul quale Stevie improvvisa su una delle tastiere della TONTO, l’Hofner clavinet modello C. I due incidono al volo una demo che non cambierà più tanto, aumentato da un giro di basso al moog e il loop della batteria. Il suono del clavinet rimane una delle cose più riconoscibili e caratterizzanti: strumento elettro-meccanico che vuole emulare il clavicordo rinascimentale, nasce in Germania in una delle fabbriche di strumenti più note, la Hofner, inventato da Ernst Zacharias, e per tutto il ventennio 60-70 «quel suono lì» sarà di gran moda, diventando una presenza costante nei dischi, dal funk al reggae. Il resto lo fa la voce di Stevie, mai così dinamica, il testo sull’ossessione per le varie superstizioni, dai gatti neri a passare sotto le scale, agli specchi:

«Quando credi in cose che non capisci
Allora soffri, la superstizione non è la strada…
»

La canzone sarebbe quella pattuita con Jeff per il suo nuovo gruppo Beck Bogert & Appice, ma visto che ci sono problemi contrattuali e il disco viene rinviato, Berry Gordy si incunea, sarà di idee poco aperte ma il fiuto e l’ha, e lo pubblica come singolo, altro numero uno dopo “You Are The Sunshine”, tre Grammy in due, mica male.

Ma subito dopo il clima cambia, a contrasto, non pensate che queste “macchine” abbiano sempre lo stesso suono. Le possibilità sono davvero molto estese: mentre una bellissima armonica a bocca accompagna tutto il brano, “Big Brother” sembra suonata su una chitarra, ha una delicatezza che contrasta con la durezza del tema, con i suoi riferimenti orwelliani che coincidono, senza nominarlo, col Presidente Nixon, che diventerà un bersaglio ricorrente (nel successivo “Innervisions” ci sarà “Misstra Know-It-All’):

«Il tuo nome è grande fratello
Dici che mi hai annotato nei tuoi appunti
Che hai scritto ogni giorno.
Il tuo nome è “ci vediamo”
Cambierò se mi voti come Presidente
Il Presidente della tua anima.
Io vivo nel ghetto
Vieni a trovarmi solo in tempo di elezioni
…»

E conclude, a questo punto allargando la focale su tutta una politica di discriminazione nei confronti del popolo nero da parte dell’establishment razzista:

«Hai ucciso tutti i nostri leader
Non devo neanche farti niente
Farai in modo che il tuo paese crolli.
»

“Blame It On The Sun” è una di quelle melodie che sono vicine parenti delle arie operistiche, e potrebbe essere una canzone di McCartney. Ascoltando i suoi Lp degli anni 70 a me sembra che i Beatles Stevie se li sia sentiti (cover a parte), e tanto. C’è quel senso della melodia, quella polifonia vocale, quelle aperture in maggiore che ricordano lo stile compositivo di Macca, a cui lo accumuna la ecletticità musicale e quella capacità multi-strumentale che consente di fare dischi da soli, anche se per arrivare alla loro collaborazione (non imperdibile) su “Ebony and Ivory” manca ancora più di un decennio. È anche il segno che, se i Beatles hanno preso così tanto dalla musica nera americana, da quella della Tamla Motown in particolare, nessun artista nero ha appreso così tanto da loro.

È una canzone di addio (non a caso il testo è di Syreeta, con cui nel frattempo si è separato, mantenendo però la partnership autorale) e anche di accettazione dei propri errori:

«Sembra che il mio amore sia andata via…
Incolperò il sole
Che non ha riempito il cielo
Incolperò le notti che non son potute essere
Ma…il mio cuore incolpa me
»

Stesso tema, altra ballata swingante che scivola via musicalmente, è “Lookin For Another Pure Love”, lei che lo lascia e lui che cerca un altro amore puro nella sua vita, con bella punteggiatura all’elettrica di Jeff Beck. La finale “I Believe (When I fall In Love It Will Be Forever)” è una di quelle ballate tipicamente wonderiane: parte piano, una riflessione sui «sogni infranti, e anni senza senso/eccomi qui rinchiuso in una conchiglia vuota» che poi, dopo un attimo di sospensione che prelude a qualcosa di grande, scivola in un ritornello irresistibile, romantico e che potrebbe durare all’infinito (ce ne saranno tante altre, in futuro, da “Don’t You Worry About A Thing” a “As’). Il finale muta clima e ritmo in un r’n’b vagamente similare alle cose di Sly Stone, un ad libitum che -come il ritornello prima- potrebbe andare avanti senza fine, ma si ferma al minuto 43, e non sembra vero. Tutto il disco è scivolato via come fosse una maxi-suite apparentemente molto più breve, alternando momenti intimi e tirate potenti.

Questa uniformità di suono – indipendentemente dal ritmo e dai generi – inaugurata con “Music Of My Mind”, sarà la cifra di tutti gli album del suo periodo d’oro, un lustro geniale che culminerà nel ’76 con “Songs In The Key Of Life”. Se vogliamo rimanere al paragone con i Beatles, questo album è il “Revolver” che troverà piena realizzazione nel successivo capolavoro assoluto, nel suo caso “Innervisions”. Non c’è dubbio che la sua genialità nel plasmare la black music negli anni ’70 rimarrà unica, e preluderà alla successiva ondata di artisti afro-americani degli anni seguenti. La connessione, per capirci, fra il funk di James Brown e quello di Prince in primis, con un dono melodico e compositivo senza pari.

La partnership con Cecil e Margouleff gli consente un controllo totale della qualità, dei tempi e modi della registrazione, e questa sarà la chiave di un momento di creatività intensa che si è visto raramente nella storia della musica degli ultimi 60 anni, soprattutto dalla mente di una singola persona.

Margouleff scatta anche la bella foto di copertina, Stevie vestito e pettinato con quello stile afro-centrico che sarà al centro dei suoi interessi in tutti gli album a venire, insieme alla cura per i non vedenti come lui, tanto che le scritte nella prima edizione dell’album saranno in rilievo con la scrittura braille. Spiritualità, amore, coscienza sociale: sarà questa la linea dei suoi clamorosi anni 70. Oltre al funk, naturalmente.

 

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