Il testamento di FaberIl disco con cui De André passò da artista stimato a cantautore che scrive la Storia

La Buona Novella del 1970 è una opera aperta che gode di una ricchezza musicale non comune grazie alle parti folkeggianti e quelle orchestrate da Gian Piero Reverberi. In ogni canzone tracima la visione del mondo anarchica, laica e terrena di un musicista che al suo quarto album ha già scritto un capolavoro. Read&Listen

Fabrizio De André

Fabrizio De Andrè, “La Buona Novella” – 1970

Questo è l’album che De Andrè ha definito «il mio lavoro migliore», ed essendo affiancato da svariati capolavori in 30 anni di carriera non è considerazione da poco. Ma al di là di tutto è sicuramente un disco molto particolare su un tema difficile e delicatissimo declinato in modo inusuale, originale, perfino sovversivo. È un disco rivoluzionario, proprio come il suo personaggio, Gesù, che Fabrizio definisce il più grande rivoluzionario della storia. Rimane un album coerente con il suo percorso ma assolutamente unico, che dimostra come un artista possa essere così ispirato da ridefinire la Storia, che in questo caso ha a che vedere con la radice della nostra civiltà, il cristianesimo. Non una cosa da poco, se hai solo 30 anni e come mestiere fai il cantautore. 

È un album che nel suo complesso – concettuale, testuale e musicale – è davvero una Opera di ispirazione e ingegno profondi, che ingloba riflessioni sulla natura di Gesù Cristo, del mito che ne è originato, del rapporto che abbiamo con le regole di vita, i Comandamenti, e che racconta tutto questo attraverso musiche diverse, che spaziano dai canti liturgici allo spiritual al folk. Una visione rispettosamente iconoclasta che vuol far riflettere e discutere: «un’opera aperta», come la definiva per la ricchezza di riferimenti letterari e musicali Umberto Eco.

Nasce in un periodo tumultuoso per la società italiana, in piena trasformazione sessantottesca, e in questo senso è davvero una delle prime, stentoree affermazioni del concetto caro a Fabrizio, il procedere in direzione ostinata e contraria. Ma perfettamente coerente, come spiegherà approfonditamente in un concerto del 1998: opera aperQuando scrissi “La Buona Novella” era il 1969. Si era quindi in piena lotta studentesca e le persone meno attente – che sono poi sempre la maggioranza di noi – compagni, amici, coetanei, considerarono quel disco come anacronistico. Mi dicevano: ’Ma come? Noi andiamo a lottare nelle università e fuori dalle università contro abusi e soprusi e tu invece ci vieni a raccontare la storia – che peraltro già conosciamo – della predicazione di Gesù Cristo’. Non avevano capito che in effetti “La Buona Novella” voleva essere un’allegoria – era una allegoria – che si precisava nel paragone fra le istanze migliori e più sensate della rivolta del ’68 e le istanze, da un punto di vista spirituale sicuramente più elevate ma da un punto di vista etico sociale direi molto simili, che un signore 1969 anni prima aveva fatto contro gli abusi del potere, contro i soprusi dell’autorità, in nome di un egalitarismo e di una fratellanza universali».

«Si chiamava Gesù di Nazareth e secondo me è stato ed è rimasto il più grande rivoluzionario di tutti i tempi. Non ho voluto inoltrarmi in percorsi, in sentieri, per me difficilmente percorribili, come la metafisica o addirittura la teologia, prima di tutto perché non ci capisco niente, in secondo luogo perché ho sempre pensato che se Dio non esistesse bisognerebbe inventarselo. Il che è esattamente quello che ha fatto l’uomo da quando ha messo i piedi sulla terra. Ho quindi preso spunto dagli evangelisti cosiddetti apocrifi. Apocrifo vuol dire falso, in effetti era gente vissuta: era viva, in carne ed ossa. Solo che la Chiesa mal sopportava, fino a qualche secolo fa, che fossero altre persone non di confessione cristiana ad occuparsi, appunto, di Gesù. Si tratta di scrittori, di storici, arabi, armeni, bizantini, greci, che nell’accostarsi all’argomento, nel parlare della figura di Gesù di Nazareth, lo hanno fatto direi addirittura con deferenza, con grande rispetto».

Tant’è vero che ancora oggi proprio il mondo dell’Islam continua a considerare, subito dopo Maometto, e prima ancora di Abramo, Gesù di Nazareth il più grande profeta mai esistito.

Alla fine degli anni 60 De Andrè è un artista stimato, ma neanche lontanamente popolare e beatificato come lo sarà nei decenni successivi, e forse ancora di più dopo la sua scomparsa. 

Figlio della buona borghesia genovese, mai rinnegata, si allontana spesso da casa in cerca di un’altra realtà, più popolare, frequentando i carruggi della città vecchia, a contatto con gli scartati dal mondo, quelli di Via Del Campo: ispirandosi a un mondo alternativo a quello delle canzoni d’amore all’italiana scrive le prime canzoni, che sembrano cogliere l’altro lato della vita: fatti di cronaca come la morte di una prostituta (’Marinella’), il suicidio in carcere di un omicida per amore (’Ballata del Michè’), l’anti-militarismo convinto (’La Ballate dell’Eroe’, ’La Guerra di Piero’), cronache paesane di comari invidiose (’Bocca di Rosa’). La sua più grande influenza è lo chansonnier francese George Brassens, ma qui e là il suo folk si tinge di leggiadri sapori medievaleggianti. 

Dopo questo inizio, raccolto in due album (“Vol.1” e “Vol.3”) che ripubblicano (a volta reincisi) tutti i singoli pubblicati per defunta Kerim, Fabrizio pubblica nel 1968 un album che fin dal titolo è assai cupo, “Tutti Morimmo A Stento.” Un album che «parla della morte. Non della morte cicca, con le ossette, ma della morte psicologica, morale, mentale, che un uomo normale può incontrare durante la sua vita». Nonostante la difficoltà del tema viene bene accolto, ma lo lascia indeciso su come proseguire il percorso. 

Gli viene in soccorso il produttore che gli è al fianco in quegli anni di crescita artistica, uno spezzino colto e intelligente, Roberto Danè. Anche se inizialmente (e stranamente) pensa di proporre la sua idea a Duilio Del Prete, autore fino a quel momento soprattutto per il Clan di Celentano, Giancarlo Casetta (il proprietario dell’etichetta Bluebell, poi Produttori Associati, su cui sono usciti i dischi di Fabrizio) gli suggerisce che potrebbe invece essere adatto proprio a De Andrè.

Nelle note di copertina, Danè spiega il senso dei Vangeli apocrifi, che sono la fonte di ispirazione del nuovo lavoro: «L’aggettivo apocrifo in greco significa segreto, nascosto. Fino al 4° secolo sembra stesse a indicare alcuni scritti che qualche setta cristiana metteva a disposizione solo degli iniziati, ritendendo che non fossero di facile comprensione per le masse. La Chiesa escluse quei testi apocrifi dal codice canonico. I Vangeli apocrifi, datati fra il 1° e il 4° secolo dopo Cristo, portano il nome di apostoli o testimoni della vita di Cristo che parlano in prima persona o sono citati come fonte del racconto: Pietro, Nicodemo, Filippo, Tommaso, in particolare per questo disco il protovangelo di Giacomo e il Vangelo Arabo dell’Infanzia. Gli apocrifi sembrano colmare il vuoto dei quattro Vangeli canonici sull’infanzia di Maria, la storia di Giuseppe, l’infanzia di Gesù. Pur essendo fuori della Chiesa gli apocrifi hanno lasciato tracce profonde: la grotta, l’asino e il bue, i re Magi, fino alle basi sulle quali poggia il dogma dell’Assunzione e della Madre di Dio. La Chiesa non li divulga, i fedeli cristiani non li conoscono, eppure Dante, Michelangelo, Raffaello, Bulgakov, Hugo devono averli letti se hanno raccontato o dipinto scene che solo essi contengono. Ma la differenza più affascinante è l’attenzione che gli autori mettono sulla natura comunque umana dei loro protagonisti».

Una fonte ufficiosa, quindi, underground, alla quale de Andrè si ispira, salvo distaccarsene e lavorare di fantasia quando gli serve. I Vangeli apocrifi hanno una grande capacità di attrazione per un autore da sempre interessato alla natura umana di quella che è una grande celebrazione del divino, e che è molto più in sintonia con la sua visione del mondo, anarchica e di conseguenza più laica che religiosa, più terrena che soprannaturale, svincolata dai dogmi che ingabbiano: «Avevo urgenza di salvare il cristianesimo dal cattolicesimo, i vangeli apocrifi sono una lettura bellissima con molti punti di contatto con l’ideologia anarchica». Raccontando la vita personale di Gesù, ne riferiscono anche la sua natura più terrena, in modo che il suo esempio non sia irraggiungibile, ma sia più avvicinabile, rappresentabile. Non a caso, in nessuna parte dell’album si riferisce a lui come Cristo, se mai il Nazareno: «Ho bisogno, e credo tutti come me, di considerarlo come uomo e di considerare ’umana’ tutta la sua storia. Perché se lo si considera un Dio non lo si può imitare, se lo si considera un uomo sì». 

Non è la prima volta che De Andrè tocca il tema dell’umanesimo del figlio di Dio: nel suo primo album, c’è quello che è a tutti gli effetti un’anticipazione della “Buona Novella”, ’Si Chiamava Gesù’:
«Non intendo cantare la gloria
Né invocare la grazia e il perdono
Di chi penso non fu altri che un uomo
Come Dio passato alla storia.
Ma inumano è pur sempre l’amore
Di chi rantola senza rancore
Perdonando con l’ultima voce
Chi lo uccide fra le braccia di una croce».

Quella del lato umano di Gesù non è però l’unico caposaldo del lavoro di Fabrizio sui testi, minuzioso come sempre, che richiederà più di un anno. Un’altra scelta forte è quella di non avere mai Gesù protagonista: è del suo percorso che si parla, evidentemente, ma lui non parla mai in prima persona, è come se assistesse allo svilupparsi della storia senza intervenire. Chi invece ha un ruolo di primissimo piano è Maria, protagonista assoluta in tutte le fasi della sua vita, da quando viene condotta al tempio a tre anni a quando scambia con le madri dei due ladroni crocefissi col figlio considerazioni addolorate. Danè aggiunge come l’incedere dell’album sia come lo sviluppo delle favole, che cominciano con ’momenti tristi e penosi’, ma poi sfociano in un finale liberatorio: «Invece Fabrizio la porta avanti come se dovesse avverarsi il lieto fine, e poi distrugge ciò che ha costruito con forza e decisione, con l’ineluttabilità della morte».

La morte. Che ricorre tantissimo nei suoi dischi, già a partire dai primi. Amore e morte, Eros e Tanatos, sono i due i temi sui quali De Andrè, e non solo nei primi album, basa la sua poetica: i due pilastri della tragedia greca compaiono di continuo nelle sue canzoni: da una parte la morte, sia quella sul campo di battaglia come quella di coloro che ’morirono a stento’, del ’pescatore’ come di un intero disco imperniato sulle figure di un cimitero, “Non Al Denaro Non All’Amore Né Al Cielo”. Qui ovviamente racconta della morte del Redentore, senza mai toccare il tema della resurrezione se non in un breve accenno, probabilmente perché avvolto dalla leggenda, e quindi al di fuori del vissuto terreno. Dall’altra c’è l’amore, come unica forza che può ribaltare la scena, cambiare a sorpresa il copione: nel senso di compassione, empatia e, nella “Buona Novella” in particolare, del perdono. 

L’album si apre con i 22 secondi di ’Laudate Dominum’, l’incipit di gloria al Signore che verrà poi ribaltato dal finale ’Laudate Hominem’, gloria all’uomo, e in questo simbolismo c’è già tutta l’essenza dell’opera, la sua intenzione guida. È anche il segnale di come Fabrizio, per quanto determinato a rileggere ’la favola’ con il suo metro, lo faccia in maniera seria e rigorosa: entrambe le musiche sono in stile liturgico, con cori gregoriani, perfettamente incastonabili in un linguaggio musicale ufficiale.

È una prima indicazione di come questo album viva di ricchezza musicale non comune, come assolutamente non comuni e di tocco nobile sono i tre tasselli dell’affresco melodico: il partner della stesura musicale e degli arrangiamenti è Gian Piero Reverberi, genovese anche lui, che collabora già con Fabrizio, e qui scandaglia tutta la sua ecletticità. A Riccardo Bertoncelli, nel libro-intervista ’Belin, sei sicuro?’ (espressione ligure inimitabile, la cui scansione usciva spesso dalle labbra di Fabrizio come di qualunque nativo ligure), Reverberi chiosa: «Nella Buona Novella, tutti i pezzi ove c’è pianoforte sono chiaramente roba mia, quelli dove c’è una chitarra sono di Fabrizio. I pezzi per coro sono evidentemente miei, perché De André Stravinskij non lo conosceva e lì ci sono dei riferimenti precisi. Se uno conosce un po’ la musica, può capire chi ha messo mano a cosa…».

Ok, siamo nel colto, e la differenze fra le parti folkeggianti di Fabrizio e quelle orchestrate da Reverberi, che insieme al fratello Gian Franco ha vissuto in pieno la fioritura della scuola genovese nel lustro precedente (da Gino Paoli a Luigi Tenco da Bruno Lauzi a De Andrè stesso), sono evidenti. Terzo tassello assolutamente complementare, la convergenza nello studio della Ricordi a Milano di alcuni dei migliori musicisti di studio dei tempi. A parte la presenza di due così giovani da essere ancora sconosciuti, Angelo Branduardi e Maurizio Fabrizio alle chitarre, ci sono i Quelli, ovvero Franco Mussida alle chitarre, Giorgio Piazza e superFranz di Cioccio alla ritmica, Flavio Premoli al piano. L’incontro con Mauro Pagani, chiamato separatamente per flautare e violinare, è la scintilla per la futura Premiata Forneria Marconi, evento nell’evento. 

Dalla potenza del coro iniziale esce la chitarra acustica e la voce profonda e scandita di Fabrizio, storyteller di infinita dolcezza ed emotività, che è il sentimento che anima tutto l’album. Comincia a raccontare ’L’Infanzia di Maria’ che ancora bambina viene consegnata ai Sacerdoti del Tempio, e sai che c’è una empatia che li legherà e che avvolge tutta la favola:
«Forse fu all’ora terza forse alla nona 
cucito qualche giglio sul vestitino alla buona 
forse fu per bisogno o peggio per buon esempio 
presero i tuoi tre anni e li portarono al tempio».

La figura della bambina che diventa donna, poi moglie e madre e infine perderà il suo unico figlio è il fil rouge della narrazione, lei che quando diventa donna viene mandata via dal luogo sacro:
«E quando i sacerdoti ti rifiutarono alloggio 
avevi dodici anni e nessuna colpa addosso 
ma per i sacerdoti fu colpa il tuo maggio 
la tua verginità che si tingeva di rosso».

Come in una pièce operistica, Fabrizio canta intervallato da un coro di stampo Rossiniano che contrappunta le strofe e rappresenta la folla eccitata dal «corpo d’una vergine (che) si fa lotteria»:

«Guardala guardala scioglie i capelli 
sono più lunghi dei nostri mantelli 
guarda le mani guardale il viso 
sembra venuta dal paradiso!».

Viene assegnata a un anziano falegname, che la sposa e deve subito partire per quattro lunghi anni fuor dalla Giudea. ’Il Ritorno di Giuseppe’ avviene su un tappeto di sapore desertico, un anticipo di world music mediorientale, chitarra pizzicata, percussioni, flauto e un accenno di sitar. Giuseppe torna a Gerusalemme con una bambola intagliata nel legno per la sua bambina, lei che gli si getta al collo, gli archi a sottolineare l’incontro e la sorpresa:
«E lo stupore nei tuoi occhi 
sale dalle tue mani 
che vuote intorno alle sue spalle, 
si colmarono ai fianchi 
della forma precisa 
d’una vita recente, 
di quel segreto che si svela 
quando lievita il ventre». 

’Il Sogno di Maria’ è l’incontro, che Fabrizio racconta come un’esperienza onirica, fra la vergine «le cui braccia che diventano ali» e una meravigliosa creatura angelica, con cui compiere un volo quasi psichedelico: 

«Volammo davvero sopra le case, 
oltre i cancelli, gli orti, le strade, 
poi scivolammo tra valli fiorite 
dove all’ulivo si abbraccia la vite».

Si sta fra realtà e sogno in questa intima, delicata canzone: «sguardi severi nel tempio» alla rivelazione, «le ombre lunghe dei sacerdoti» che diventano di pietra, e poi il risveglio dal «sogno che sonno non era»: 

«Lo chiameranno figlio di Dio 
Parole confuse nella mia mente, 
svanite in un sogno, ma impresse nel ventre». 

Fino all’immagine finale, l’anziano Giuseppe, «dita troppo secche per chiudersi su una rosa», che la abbraccia con un gesto di tenerezza infinita:
«E tu, piano, posasti le dita 
all’orlo della sua fronte: 
i vecchi quando accarezzano 
hanno il timore di far troppo forte». 

Quell’istante così dolce scivola in una melodia bellissima, a metà fra il classico e il pop, cori celestiali ad accompagnare, al centro dell’Lp come fosse il suo cuore, una ’Ave Maria’ che è un breve (troppo breve) e commovente preghiera che ha al centro il ruolo della donna: inno alla donna che si trasforma in madre, un riconoscimento all’origine della vita: 

«Ave Maria, adesso che sei donna, 
Ave alle donne come te, Maria, 
Femmine un giorno per un nuovo amore 
Povero o ricco, umile o Messia. 
Femmine un giorno e poi madri per sempre 
Nella stagione che stagioni non sente». 

La seconda facciata si apre con Maria che visita la bottega di un falegname, i Quelli che in un’atmosfera da musical fra strumenti e cori sottolineano il den den del martello e il fren fren della pialla con cui l’operaio appronta le tre croci:
«Due per chi
disertò per rubare, 
la più grande per chi guerra 
insegnò a disertare». 

E qui c’è un passaggio del De Andrè pacifista. Ma il falegname chiude con la rivelazione del perché, e per chi, sta scolpendo quelle croci:
«
Questi ceppi che han portato 
Perché il mio sudore 
ll trasformi nell’immagine 
di tre dolori, 
vedran lacrime di Dimaco 
e di Tito al ciglio 
Il più grande che tu guardi 
abbraccerà tuo figlio». 

La scena successiva è quella drammatica della ’Via Della Croce’, Gesù e i due ladroni che salgono, croce in spalla, verso la cima del Golgota. Le vedove in testa al corteo, gli apostoli che «han chiuso le gole alla voce» per paura di esser scoperti e la paura, umana, che scende anche nel cuore del redentore:
«La semineranno per mare e per terra 
Tra boschi e città la tua buona novella, 
Ma questo domani, con fede migliore, 
Stasera è più forte il terrore».

Un momento toccante è quello delle tre madri che si ritrovano sotto le croci che portano i loro figli. Le madri di Tito e Dimaco piangono, e rivolte a Maria sconsolate sottintendono che la resurrezione non sarà per i loro figli:

«Tito, non sei figlio di Dio
Ma c’è chi muore nel dirti addio
Dimaco, ignori chi fu tuo padre
Ma più di te muore tua madre.

Con troppe lacrime piangi, Maria
Solo l’immagine d’un’agonia
Sai che alla vita, nel terzo giorno
Il figlio tuo farà ritorno
Lascia noi piangere, un po’ più forte
Chi non risorgerà più dalla morte»

Ma Maria alla resurrezione non pensa, sente quello che una madre sente quando perde un figlio, tantopiù se lo perde per un disegno superiore:

«Per me sei figlio, vita morente, 
Ti portò cieco questo mio ventre, 
Come nel grembo, e adesso in croce, 
Ti chiama amore questa mia voce. 
Non fossi stato figlio di Dio 
T’avrei ancora per figlio mio».

Prima del finale, quello che è la summa della buona novella per come la intende De Andrè, ’Il Testamento di Tito’: è Tito, uno dei due ladroni, che passa in rassegna i dieci comandamenti, li decostruisce e li confuta con esempi personali, e alla fine li ribalta, li vede come leggi rigide che non considerazione l’umanità e il contesto che plasmano la vita degli uomini comuni:

«Non avrai altro Dio all’infuori di me, spesso mi ha fatto pensare:
genti diverse venute dall’Est dicevan che in fondo era uguale.
Credevano a un altro diverso da te e non mi hanno fatto del male».

E scorrendo lungo le dieci regole ci sono momenti che si addicono anche ai tempi moderni, perché la natura umana, anche quella familiare, non cambia:
«Onora il padre, onora la madre e onora anche il loro bastone.
Bacia la mano che ruppe il tuo naso perché le chiedevi un boccone
Quando a mio padre si fermò il cuore non ho provato dolore».

Ogni comandamento trova una sua ragione di esser messo in discussione, in quello che De Andrè considera, insieme ad ’Amico Fragile’, il suo pezzo migliore: «Dà un’idea di come potrebbero cambiare le leggi se fossero scritte da chi il potere non ce l’ha. È un altro di quei pezzi scritti col cuore, senza paura di apparire retorici, che riesco a cantare ancora oggi, senza stancarmene».

Fino a quando, nell’ultima strofa, si libera quel sentimento che è il vero senso del disco, e della visione laica eppur cristiana di Fabrizio. La ’buona novella’, il buon messaggio è che aldilà del soprannaturale, si può essere beati anche qui sulla terra, se in te esiste il sentimento di compassione, di pietas, nei confronti dei tuoi simili:
«
Io nel vedere quest’uomo che muore, madre, io provo dolore.
Nella pietà che non cede al rancore, madre, ho imparato l’amore».

Canzone nata in maniera curiosa, perché prima di trovargli una musica Fabrizio la canta sulla metrica e melodia di ’Blowin’ In The Wind’. Solo in un secondo momento altri due genovesi, Michele Maisano (voce da Elvis melodico, ’una grande hit negli anni 60 con ’Se Mi Vuoi Lasciare’) e Corrado Castellari trovano questa nuova melodia, che De Andrè e Mussida portano avanti con un fingerpicking intrecciato che a poco a poco si apre anche ad altri strumenti.

Chiude l’affresco un altro canto liturgico, ’Laudate Hominem’, che sigilla il percorso. Lodate l’uomo non in quanto figlio di un dio, ma in quanto figlio di un altro uomo, quindi fratello:
«Qualcuno, qualcuno tentò di imitarlo
Se non ci riuscì fu scusato, 
Anche lui perdonato perché non si imita
Non si imita un dio, 
Un dio va temuto e lodato, lodato… 
No, non devo pensarti figlio di Dio
Ma figlio dell’Uomo, fratello anche mio». 

Quest’album, che curiosamente precede di poco un’altra versione del Gesù Cristo umanizzato, e molto spettacolarizzato, quella del musical Jesus Christ Superstar di Rice & Webber, porta di sicuro una buona notizia: è che all’alba degli anni 70 abbiamo in Italia un pensatore capace di toccare, in rima e attraverso le canzoni, temi mai facili né comodi da portare in scena. Siamo solo al quarto album, e già Fabrizio si rivela un cantautore di livello superiore.

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