Dai balletti ai colpi di mortaio. Sui TikTok questi elementi convivono, si sono ibridati. L’audio originale dei bombardamenti e la musica a sottofondo della resistenza ucraina, i video della vita di prima e quelli che documentano l’invasione russa dal campo come in alcuni casi non riescono a fare più i media. La disinformazione è uno dei calibri pesanti della guerra, specie sulla piattaforma più radicata tra gli utenti più giovani, refrattarie agli altri canali. In questa terra di nessuno, dove tv e giornali sono arrivati tardi, prosperano notizie e il loro esatto contrario, la propaganda e il suo antidoto.
Sono stati arruolati anche gli influencer nella «prima guerra su TikTok», copyright del New Yorker, ripreso in Italia dal Post. In una Russia sempre più isolata, il social è stato spento, assieme a Netflix. Prima che avvenisse, l’Atlantic Council ha scoperto che i video, poi cancellati, di molti tiktoker russi dicevano le stesse cose. In senso letterale: frasi identiche, come se stessero recitando un testo. Mascherato dietro un cancelletto che invoca la pace (#давайзамир) c’è il tentativo di discolpare Mosca e rivendicare i morti nel Donbass. Gli utenti si sono accorti della dettatura del Cremlino e molti creator hanno dovuto chiudere i commenti. Una censura simile a quella che lamentano d’aver subìto dall’Occidente.
Anche un presidente attento al fronte digitale come Volodymyr Zelensky ha provato a mobilitare i tiktoker, al fianco di categorie professionali come «scienziati, medici, blogger e comici», fin da un discorso del 24 febbraio, cioè il giorno dell’aggressione. Per capirci, era prima che venisse cercato Elon Musk per la sua connessione internet satellitare o della chiamata alle armi dei foreign fighters con la legione internazionale. Parafrasando Napoleone Bonaparte, vanno temuti più tre influencer di centomila baionette. Ma come mai?
La risposta passa dai dati. Mentre le piattaforme di Meta, l’impero di Mark Zuckerberg, scontano da tempo un’emorragia di traffico, TikTok (di proprietà della cinese ByteDance) è l’unica piattaforma a essere cresciuta. Sempre di più. Oggi gravitano sulla sua app un miliardo di utenti attivi, una percentuale che va tra un quinto e un quarto del totale di chi usa i social nel mondo. Se gli altri ecosistemi invecchiano, TikTok ha la migliore presa sulle fasce d’età più giovani. Più di metà del suo pubblico ha meno di trent’anni: il 20% è minorenne, il 35% va dai 19 ai 29 anni.
Per questo, orientare il discorso qui significa influenzare la percezione dei fatti in strati sociali che non sono raggiunti dai media tradizionali. Per converso, in un regime autoritario e oppressivo come la Russia, dove si rischiano quindici anni di carcere se si chiama la guerra con il suo nome, online si aprivano spiragli di verità. Sui social, inclusi quelli ora oscurati, transitavano le notizie che Vladimir Putin avrebbe voluto silenziare. La massa di utenti di TikTok in Russia va dai 28 milioni riferiti da Wired ai 36 milioni stimati dalla BBC, su una popolazione di 144 milioni di persone.
Ogni ora sulla piattaforma vengono caricati cinque milioni di video. In otto giorni, tra il 20 e il 28 febbraio, le visualizzazioni dei filmati con l’hashtag #Ukraine sono salite da 6,4 miliardi a 17,1 miliardi: una media di 1,3 miliardi al giorno, o di 928 mila al minuto. Lo ha calcolato Wired e vanno sommate le views associate al cancelletto #Украина, cioè «Ucraina» in cirillico, pari a 16,4 miliardi nello stesso periodo. Per fare un confronto con il principale concorrente, su Instagram i post taggati con #Ukrainewar sono 176 mila e molto spesso i reel provengono da TikTok. È questa la potenza di fuoco di un social considerato troppo a lungo infantile.
Non è la prima volta che i conflitti sbarcano sui social, era già successo con la Primavera Araba e in Siria. All’epoca era protagonista Facebook, ormai ridotto a modernariato. Il ritiro dall’Afghanistan dell’estate 2021 ha rianimato la vitalità di Twitter, presidiato dai giornalisti; non è mai stato un fenomeno di massa in Italia. Su questi social, ha messo in luce una ricerca del Media Lab del MIT, le fake news saettano sei volte più velocemente delle notizie vere. Per quel poco che sappiamo su come è costruito TikTok, questo disclaimer va ingigantito.
Il social ha un’architettura diversa da quella degli altri. Invece di proporci in prima istanza i video dei profili che già seguiamo, ha la priorità il contenuto apparecchiato per noi dagli algoritmi. Questo feed, il principale e quello su cui si apre l’applicazione, si chiama «Per te». Ci finiscono, ovviamente, anche i filmati dei nostri amici virtuali, spesso non in ordine cronologico. La sezione è ingegnerizzata per imparare dai nostri «mi piace» e amplificarli. Se ci mostriamo interessati alle immagini sulla guerra, ce ne verranno sottoposte sempre di più. Al tempo stesso, dai meme su Putin potremmo deragliare nelle apologie filorusse.
Fin dalla nascita, TikTok si è venduto come neutrale e apolitico. Prima di spopolare in Occidente, però, ha assecondato le pressioni della madrepatria, la Cina. In passato, scrive il Financial Times, avrebbe rimosso video sulle manifestazioni democratiche di Hong Kong del 2019 e avrebbe proibito di mettere nei sottotitoli parole come «campo di lavoro» e «centri di rieducazione», termini che ricorrevano nelle testimonianze sulle condizioni della minoranza uigura. Da qui i dubbi sulla capacità del social di contenere una guerra che viene già combattuta al suo interno.
Diversi media internazionali, tra cui il New York Times oltre a quelli già citati, hanno evidenziato i fallimenti o la lentezza di TikTok nel limitare i contenuti falsi. Tra gli esempi diventati virali, un video di saluti ai soldati in partenza per il fronte preso da un film del 2017, il riciclo dell’audio dell’esplosione del porto di Beirut del 2020, le sequenze prese dai videogiochi, tra cui una sulle imprese del leggendario «fantasma di Kiev», il pilota che avrebbe decimato gli aerei russi. Un mito che aiuta il morale, ma quel ruolo lo stanno rivestendo le armi inviate da Europa e Stati Uniti.
Uno dei punti di forza di TikTok è l’universalità dei suoi video. Nei maggiori trend, le parole sono secondarie. Bastano le immagini. Le scritte didascaliche, quando ci sono, sono in inglese. Così il materiale può circolare oltre le barriere linguistiche. Un racconto della guerra spontaneo e senza filtri, a volte persino con ironia, come nei video dove la ventenne Valeria mostra una giornata tipo nel bunker. «Mentre le colonne russe continuano a cercare di penetrare nel centro di Kiev – ha scritto Kyle Chayka sul New Yorker –, le testate tradizionali ritirano i loro giornalisti per metterli in salvo. I social sono cronisti imperfetti della guerra. In alcuni casi, potrebbero essere la fonte più affidabile di cui disponiamo».
Su TikTok viene anche celebrata l’Ucraina di prima dell’assedio, tra bellezze naturali e l’orgoglio di città vive, indistinguibili da quelle europee, tra serate in discoteca e i cappuccini di Starbucks. L’inno di questo filone è Another Love, una canzone di Tom Odell, che in un vlog si è detto fiero della nuova valenza del suo brano.
Tra le clip virali ce n’è anche una tratta da Servitore del popolo, la serie tv dove Zelensky interpreta il se stesso del futuro. Lo si vede esultare perché Angela Merkel gli annuncia al telefono l’ingresso del suo paese nell’Unione europea, solo per scoprire che la cancelliera ha sbagliato numero. Oggi quella richiesta non è più fantasia: è stata spedita a Bruxelles.
L’Europa che sta dando prova di unità, a differenza di quella della serie, non può (più) permettersi di frustrare le speranze dei cittadini ucraini.