Cerchi di riconoscere i tuoi cari posti tra le mappe, le foto, le notizie sui paesi liberati dall’esercito ucraino. Se quella chiesa sul video era la chiesa dove sei stata battezzata a 6 anni, perché sei nata in Unione Sovietica dove Dio non esisteva, dove battezzare i bambini era un reato e quindi poteva succedere solo nell’Ucraina indipendente, due settimane prima di cominciare la prima elementare. No, non era la tua chiesa. Ma è una speranza di chiesa, magari in uno di questi giorni verrà liberata anche la tua.
Raccogli i brandelli dì notizie, attaccate alle linee telefoniche distrutte, che arrivano tra interferenze, scricchiolii da lontano, con quelle parole che ormai contengono tutto: siamo vivi, quello che segue dopo è irrilevante. Sono zone dove le luci sono spente e i ripetitori abbattuti.
Prima di voi, soldati russi, sono arrivate le vostre bombe a distruggere e a spaventare. Dietro le bombe siete arrivati voi con le scarpe sporche di fango delle vostre paludi, vi siete insediati lì nelle nostre case, avete ammazzato i nostri animali per sfamarvi, perché nessuno vi manda più i rifornimenti, avete portato fuori i nostri tavoli, dove noi ci sedevamo in famiglia a festeggiare le piccole feste. Ci avete bevuto sopra, poi avete cavalcato i vostri carri armati alla ricerca dei corpi fragili e spaventati femminili, per fare il giro dei vincitori su quei corpi e per le strade, nostre strade, dove in tanti abbiamo fatto i primi passi, dove andavamo a scuola con le cartelle piene di libri e di sogni, dove i nostri nomi sono rimasti scritti con la vernice sull’asfalto davanti alla scuola: classe 2003, l’anno in cui ci siamo diplomati.
Poi tanti di noi, come me, sono andati via, altri sono rimasti a fare i custodi del nostro passato vissuto insieme. Ci incontravamo per le cene di coscrizione per condividere le nostre vite pacifiche, per far conoscere le nostre famiglie ormai allargate con mariti, mogli e figli per poi essere pestati dalle vostre scarpe infangate.
Non ci sono i cellulari a testimoniare questo, li avete sequestrati, ci sono solo i vecchi cellulari gsm che grazie a qualche tacca una volta ogni tanto servono a comunicare dì essere vivi, per condividere paure e dolore. Oltre quelle chiamate, cade il silenzio.
Provi ad arrivarci con la memoria. A salire le scale dell’ingresso della scuola, a girare il tornante verso la via la più lunga del paese, dove abita tua cugina, dove conosci ogni buca nell’asfalto. Voli verso l’ufficio postale e verso il comune, prosegui fino alla fine della strada, dove la via diventa un campo di fiori. Adesso lì in quelle strade e in quei campi ci sono le vostre mine e le vostre scarpe fangose, arrivate a calpestare non solo il presente, ma anche tutti i nostri ricordi.
Non ci sono più civili, chi è morto, chi è scappato nei paesi vicini per sopravvivere. Perché quella non è vita, è sopravvivenza. Correre piegati da casa fino alla cantina che funge da rifugio, mentre il cielo si spezza in due. Contare per quanto basterà il cibo, sprofondare nei silenzi e nel buio di quelle cantine tra vicini di casa e le provviste. Di cosa parlate tra di voi? Sapete che giorno è oggi? Cantate le canzoni ai vostri figli? Gli fate fare un po’ di compiti per non perdere per sempre il programma di studio? Pensate agli orti? Pensate a seminare questa primavera con i missili che vi volano sopra le teste in direzione della capitale? Chi arerà le terre, se i cavalli sono già stati uccisi? Cosa germoglierà nei vostri campi minati? Avete seppellito i vostri cari, morti nei primi giorni sotto le bombe, quelle che dovevano solo spaventare, ma le bombe sono cieche e le loro traiettorie si incrociano sempre con le vite umane una volta lanciate.
Guardi i tuoi cari in quelle foto in bianco e nero, recuperati l’estate scorsa a casa. Hanno quei bordi ondulati, le scritte dietro con la penna blu: 1954, 1984, 1988. Gli occhi divorano ogni centimetro di quelle foto, ogni ruga sul viso e ogni piega sulle camicie e vestiti. Perché le traiettorie delle bombe sono imprevedibili, una volta lanciate possono far sì che quelle foto rimarranno l’unica memoria concessa, se non ripiegherete le vostre scarpe fangose dalle nostre terre del sole.