Ius pecuniaeCome l’Ue vuole vietare i passaporti d’oro

Il Parlamento europeo chiede di abolire la «cittadinanza per investimento», attualmente in vigore in tre Paesi dell’Unione. E chiede anche controlli più severi sui golden visa

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La cittadinanza nell’Unione europea non può essere una questione di denaro: il Parlamento ha approvato a maggioranza schiacciante una risoluzione d’iniziativa legislativa per vietare la pratica della «cittadinanza per investimento», che concede la nazionalità di un Paese a fronte di un cospicuo versamento di denaro.

Se i cosiddetti passaporti dorati sono inammissibili per l’Eurocamera, il giudizio sui «visti dorati» è più sfumato: possono essere assegnati permessi di soggiorno sulla base di un investimento, purché gli intestatari risiedano davvero sul territorio nazionale e vengano effettuati stringenti controlli anti-riciclaggio.

Come funzionano i passaporti dorati
Quello dei passaporti dorati è un tema dibattuto da tempo nell’Unione. Bulgaria, Cipro e Malta dispongono di programmi di citizenship-by-investment (Cbi), che permettono a facoltosi individui stranieri di acquisire la cittadinanza del Paese, con tutti i diritti connessi all’interno dell’Unione.

Il governo maltese, ad esempio, garantisce un passaporto sulla base di un prezziario: 750mila euro se lo si vuole ottenere con un solo anno di residenza sull’isola, 600mila aspettando tre anni. Le somme vanno versate al Fondo Nazionale per lo Sviluppo Sociale e corredate da una donazione di 10mila euro a una realtà no-profit del Paese e dalla promessa di restarvi domiciliati per almeno cinque anni. Per ogni membro della famiglia da «naturalizzare», servono 50mila euro aggiuntivi.

Si tratta di una pratica che «porta alla mercificazione della cittadinanza dell’Unione» e ne viola i valori, in particolare quello dell’uguaglianza, come si legge nel testo della risoluzione.

La «cittadinanza per investimento» rischia spesso anche di trasformarsi in un lasciapassare per personaggi dal passato oscuro, che grazie al nuovo documento possono muoversi liberamente e fare affari nell’Unione europea. Anche perché la sorveglianza sui precedenti di chi richiede la cittadinanza non sembra troppo stringente: la metà dei 6.779 passaporti dorati rilasciati da Cipro tra il 2007 e il 2020, per esempio, è stata concessa senza adeguati controlli.

«È come stendere un tappeto rosso alla corruzione e al riciclaggio di soldi sporchi», ha detto la relatrice della risoluzione parlamentare, la liberale olandese Sophie in ‘t Veld.

L’ingresso di queste figure discutibili nell’Unione è da tempo motivo di preoccupazione a livello istituzionale. A ottobre 2020 la Commissione europea ha aperto una procedura d’infrazione contro i due Stati insulari del Mediterraneo, accusandoli in sostanza di vendere i propri passaporti, concedendoli anche a persone senza nessun legame genuino con il Paese. Nello stesso mese, Cipro ha annunciato la chiusura del proprio programma.

La «cittadinanza per investimento» cipriota ha attirato diversi milionari dalla Russia: più di mille solo tra il 2017 e il 2019, corrispondenti a quasi la metà del totale dei nuovi cittadini, secondo un’inchiesta di Al Jazeera, che rivela come le famiglie dell’oligarchia preferiscano mettere i propri beni al sicuro in un Paese dell’Unione piuttosto che lasciarli alla mercé del Cremlino. I legami economici tra l’isola e il mondo degli affari di Mosca sono noti da tempo, ma il problema è ancora più urgente ora che la Commissione europea si è impegnata a controllare da vicino i movimenti dei ricchi cittadini russi in territorio europeo e limitare la concessione dei passaporti.

Anche i visti in vendita
Il governo di Cipro prevede anche la possibilità di ottenere un permesso di soggiorno sul proprio territorio in cambio di una somma di denaro. Non è il solo: i cosiddetti programmi di «residenza per investimento» (residence-by-investment, Rbi) sono attivi pure in Estonia, Grecia, Irlanda, Italia, Lettonia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo e Spagna, oltre che a Malta e in Bulgaria.

I trasferimenti di denaro vanno dai 600mila euro della Lettonia (a ideare il programma fu l’attuale vice-presidente della Commissione Valdis Dombrovskis, quando era Primo ministro del Paese baltico) al milione e 250mila euro richiesto dai Paesi Bassi.

In Italia si può ottenere un permesso di soggiorno biennale acquistando due milioni di euro di titoli di Stato, investendo 500mila euro in un’azienda privata o 250mila in una start-up, o ancora donando un milione a sostegno di un progetto di pubblico interesse, nei settori della cultura, istruzione, gestione dell’immigrazione, ricerca scientifica o recupero di beni culturali e paesaggistici. I beneficiari del permesso «per investitori» devono al contempo garantire la proprietà di una cospicua somma di denaro, quantificata in almeno un milione di euro.

Attirare investimenti è di per sé una buona strategia per foraggiare l’economia nazionale, afferma la risoluzione del Parlamento, ma «non dovrebbe comportare rischi giuridici e di sicurezza per i cittadini dell’Unione». Il nodo principale sono i controlli, spesso incompleti e affidati ad attori non statali. In alcuni casi, nuovi residenti beneficiano di ricongiungimento con un familiare che ha già ottenuto un permesso tramite investimento e saltano quindi la trafila delle verifiche.

Con le pratiche di «residenza per investimento», infatti, il rischio è quello di attrarre richiedenti in malafede, desiderosi solo di accedere al mercato europeo senza intrattenere legami effettivi con lo Stato membro in questione». Le disparità presenti nei programmi dei diversi Paesi, dal costo al periodo di tempo necessario, potrebbero inoltre favorire una sorta di «corsa al ribasso», in cui i governi si contendono gli investitori tramite l’adozione di norme di verifica sempre meno stringenti e di condizioni sempre più favorevoli.

Discusso è anche il ruolo degli intermediari commerciali, che aiutano il richiedente a espletare le pratiche per la concessione del visto: si tratta di figure spesso escluse da ogni regolamentazione, che percepiscono di solito una percentuale della somma versata e hanno quindi tutto l’interesse all’approvazione delle richieste.

In molti, finora, hanno approfittato delle possibilità offerte: uno studio commissionato dall’Eurocamera stima che più di 130mila stranieri abbiano ottenuto una cittadinanza o un permesso di soggiorno nell’Ue grazie a questo tipo di procedure tra il 2011 e il 2019, mentre il ricavo complessivo  per gli Stati che li hanno concessi ammonta a 21,4 miliardi.

Adesso però la risoluzione votata dal Parlamento obbliga la Commissione europea a elaborare una proposta legislativa in merito o giustificare la sua decisione di non farlo: una prima risposta dall’esecutivo comunitario è attesa entro tre mesi, secondo l’Articolo 47 del regolamento parlamentare. L’Eurocamera vorrebbe un quadro normativo europeo per tutti i programmi nazionali di «residenza per investimento», un sistema comune per incrociare i dati dei richiedenti, «rigorosi controlli» dei loro precedenti personali e una serie di requisiti minimi da rispettare perché la residenza sia effettiva, con visite di accertamento atte verificare la presenza fisica del soggetto interessato.

Si propone anche di applicare un prelievo comunitario sulle somme versate per ottenere visti e passaporti, che darà vita a una nuova categoria di «risorse proprie» dell’Ue: se l’Unione nel suo complesso deve far fronte ai rischi derivanti da queste pratiche, è giusto che ne benefici almeno in termini economici. Ma soprattutto, secondo gli europarlamentari, è necessario mettere fine a qualunque programma di concessione di cittadinanza tramite investimento entro il 2025: i governi che ancora sperano di guadagnare sull’emissione dei passaporti sono avvisati.

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