Un po’ come Stendhal, che non cita che una sola volta la Certosa di Parma nel suo capolavoro omonimo, addirittura in “Via Savoia” (La nave di Teseo, da ieri in libreria) il protagonista non è citato mai. È “lui” la persona importante di cui si narra e non c’è bisogno di nominarlo perché questo libro di Marco Follini non è un né una biografia politica né un saggio storico ma, appunto, un racconto drammatico e, se ben si intende l’espressione, romantico.
“Lui” è ovviamente Aldo Moro, ce lo dice subito la fotografia in copertina che lo ferma in una delle sue passeggiate solitarie, le braccia dietro la schiena, un poco incurvato nel doppiopetto scuro nei viali della Farnesina (se ci si consente un lontano ricordo, noi da bambini che andavamo lì a giocare lo vedemmo più di una volta proprio in quei viali, il ministero degli Esteri era a due passi).
A via Savoia invece aveva il suo sobrio ufficio privato, lontano dai palazzi del potere, in una zona tranquilla non lontana da Villa Borghese, dove si rintanava come in un «guscio» – così lo definisce Follini – dove poter lavorare ma soprattutto immaginare quel famoso «dopodomani» evocato nel celebre, magnifico suo ultimo discorso ai gruppi parlamentari della Democrazia Cristiana.
Questo è un libro diverso da tutti quelli di politica. Anche, va detto incidentalmente, perché è scritto con uno stile personale molto prezioso e altrettanto sofferto (le idee dell’autore sono ovviamente dentro la cosmogonia morotea). Ma non solo per questo. “Via Savoia” restituisce non solo il pensiero di Moro ma i suoi presupposti morali e umani, persino psicologici. Illumina i nessi profondi e forse mai così bene scandagliati tra il cervello del presidente democristiano e la sua azione.
Ma di più, tra le sue caratteristiche psicofisiche e l’agire politico, perché alla fine la politica è cosa di individui, nasce dalla loro pelle, si sviluppa nei gesti, nella voce, negli sguardi, e dunque ecco la famosa flemma tutta meridionale di Moro che accompagna il suo movimento lento verso nuovi orizzonti, come se nella pressione bassa di cui soffriva fosse la chiave di una vicenda politica rallentata, lunga tre decenni tra alti e bassi, altari e polveri, discorsi fatti e cancellati, successi e incomprensioni. È quel “labirinto” che Moro dovette percorrere senza peraltro poterne trovare l’uscita, come si sa.
Ecco: in queste pagine c’è l’uomo Moro, con le sue debolezze e la sua intelligenza degli avvenimenti, come si intitolava una raccolta di suoi interventi. «Tutto gli appariva sempre molto precario, quasi sul punto di potersi rompere da un momento all’altro. E il cammino politico procedeva per forza di cose in quel modo circospetto su cui non si finisce mai di fantasticare»: da questa sensazione permanente di precarietà scaturisce in Moro l’attitudine a guardare avanti per “aggiustare” cioè che si sta per rompere, e forse in questo sforzo continuo – azzardiamo – si intrecciano il senso cristiano dell’ascesa e un certo incedere illuministico della Storia.
La quale – Follini lo sottolinea più volte – non tralascia certo le meschinità e le brutture con le quali uno statista così intelligente dovette convivere e in un certo senso persino contribuire a non recidere in nome di un equilibrio inteso come ragione superiore. Ecco il compromesso, talvolta i silenzi. La politica di sempre eppure così lontana da quella di oggi: «La sua leadership insisteva a esprimersi così per accenni, silenzi, prudenze, omissioni, all’occorrenza rinvii. Ma era sempre tutto troppo implicito. Mai un gesto forte, mai un appello al Paese, mai uno strappo rispetto a procedure avvolte in una coltre di nebbia». Era il Moro che non si capiva, o si capiva dopo. Non era “popolare” eppure alle elezioni ogni volta aveva un consenso larghissimo.
L’autore, giovanissimo testimone dell’ultima fase della vita della Dc, prova a squarciare il velo sul complicatissimo rapporto con il suo partito che «lo assecondava e contemporaneamente diffidava di lui. E i nuovi equilibri politici e di governo a cui cercava di mettere mano, se portavano armonia – un tentativo di armonia – da una parte, seminavano controversie e anche qualche veleno dall’altra».
Moro fu amato da un pezzo della Democrazia Cristiana e odiato da un altro pezzo. Accadde anche agli altri cavalli di razza, Fanfani, Andreotti, un po’ anche a De Mita. La lotta politica interna al proprio partito è terribile. Ma certo Moro ebbe nemici “pesanti”, nell’establishment economico, in America, nella Chiesa. E il dubbio che alla fine della storia odî, rancori e vendette si siano in qualche modo aggrumati all’ombra del «pugno di assassini», come Luciano Lama definì le Brigate Rosse il pomeriggio del 16 marzo a piazza San Giovanni, è un dubbio che resta. Nessuno saprà mai dire con esattezza a chi giovò la sua morte.
Annota Follini: «Ancora una volta si affacciava una corale diffidenza nei suoi riguardi. E se prima era risultata insopportabile la sua supremazia di pensiero, ora quella supremazia poteva facilmente venire capovolta fino a scivolare verso la rappresentazione caricaturale di un uomo tremebondo, dominato dalla paura e forse addirittura incline a una forma di vigliaccheria». La “linea della fermezza” – non cedere al ricatto dei terroristi – contemplava anche questo.
E dunque, nella stanzetta del covo brigatista, disperato e solo come nessun uomo politico nella storia è mai stato, «il potere dovette essergli apparso per quello che aveva sempre sospettato. Come una sorta di inutilità».
Contarono, alla fine, gli affetti e solo quelli. Non c’era altro, non il suo partito, non i comunisti, non il Parlamento, addirittura neppure il grande amico Montini. Così finì la tragedia, giusto 44 anni fa, e la vita di un uomo così difficile da accostare, ieri e ancor di più oggi che tanto tempo è passato.