«Alla Nato chiediamo solo tre cose: armi, armi, armi». L’appello del ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba – unito a quelli ripetuti più volte del presidente Volodymyr Zelensky – è permeato da un senso di urgenza ineccepibile. L’Ucraina insiste sull’idea che i ritardi nell’approvvigionamento di armi per Kiev siano costati sangue e terreno ai difensori, e che resti poco tempo per poter preparare le difese in Donbass prima della prossima offensiva russa.
Può sembrare paradossale, ma le richieste con tono d’accusa da parte ucraina hanno decisamente un fondo di verità proprio perché i rifornimenti sarebbero determinanti per l’andamento generale della guerra, non tanto per il contributo immediato che offrirebbero alle difese ucraine.
Molto è già stato scritto sulle armi necessarie all’Ucraina per resistere all’avanzata russa, arenatasi rapidamente nei primi giorni di guerra. Nella prima fase del conflitto ci si è concentrati soprattutto sulla fornitura di quei sistemi utili per armare una resistenza armata e organizzare una difesa flessibile, incardinata su imboscate, raid e ritirate in combattimento.
In queste ore è ricominciata con vigore la discussione sull’opportunità di armare l’esercito ucraino con armi offensive, una definizione fuorviante che scambia la modalità d’impiego di un’arma e le capacità operativa a cui essa dà accesso.
Due esempi semplici aiutano a inquadrare la questione. I mezzi corazzati (carri armati, semoventi d’artiglieria e blindati da trasporto per la fanteria) sono spesso associati a grandi battaglie corazzate o assalti combined arms come quelli che settant’anni fa hanno insanguinato questa regione. I mezzi corazzati sono però unità che operano in simbiosi con la fanteria e che ricoprono un ruolo anche in un sistema difensivo, soprattutto su un fronte così esteso e poco fortificato come quello ucraino. Respingere il nemico non si riduce a difendere una posizione, ma anche essere in grado di contestare le sue conquiste recenti e impedire che abbia un momento di pausa per preparare nuove offensive.
Le perdite ucraine sono attualmente più incerte rispetto a quelle russe, soprattutto perché gli osservatori esterni sono riluttanti a rivelare informazioni sensibili riguardo ai difensori. Secondo Stijn Mitze di Oryx, tuttavia, l’Ucraina ha perso circa un centinaio di carri armati e una sessantina di mezzi di fanteria, che se non rimpiazzati precluderanno controffensive locali, oltre che a sfruttare eventuali punti deboli nelle linee russe e tenere alta la pressione in regioni come Kherson.
Il secondo esempio riguarda i droni suicidi Switchblades: sono stati finora stati presentati come sistema difensivo e assimilabile ai missili anticarro trasportabili in spalla, sulla falsariga del Javelin. Trattandosi però di un drone suicida, lo Switchblade può essere pilotato agilmente contro obiettivi fino a quaranta chilometri di distanza: permette di colpire i rifornimenti di forze russe impegnate in operazioni offensive, ma anche di azzoppare il sistema logistico del nemico in preparazione di un attacco.
A questi si aggiungono poi sistemi che andrebbero a sopperire le debolezze specifiche dell’esercito ucraino in qualsiasi contesto operativo. Kiev ha un corpo d’artiglieria insufficiente per fornire supporto immediato al fronte e, soprattutto, ingaggiare in duelli a distanza la propria controparte russa, che gioca un ruolo chiave nella dottrina offensiva dell’invasore.
In più l’Ucraina sconta un basso numero di sistemi antiaerei in grado di contrastare i bombardieri tattici russi. Anche se assente nelle prime fasi della guerra, l’aviazione russa (RuAF) potrebbero tornare a essere determinante nel caso gli attaccanti continuassero a concentrare le proprie offensive e permettere quindi alla RuAF di imporre una superiorità aerea locale nelle zone di operazione.
Piuttosto che distinguere fra armi offensive e difensive, ha senso parlare di armi facilmente utilizzabili, sistemi complessi come aerei e carri armati già noti alle forze armate ucraine e nuovi sistemi complessi corrispondenti agli standard Nato.
Questi ultimi sono anche quelli che hanno suscitato le maggiori tensioni politiche, soprattutto in Paesi come la Germania: richiederebbero un impegno a medio termine da parte alleata per addestrare gli operatori ucraini, oltre che una garanzia rispetto alla fornitura di pezzi di ricambio. Ciò equivarrebbe anche all’ammissione che la guerra durerà indefinitamente – come ha ipotizzato il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg – e che saranno necessarie disposizioni per sostenere lo sforzo bellico ucraino. Va ricordato che la competenza operativa finora dimostrata con i sistemi occidentali è anche dovuta alle lunghe missioni di addestramento e supporto degli Stati Uniti e dei loro alleati.
È molto facile dimenticarsi che nessuna guerra si decide solamente sul campo. Il contesto politico rimane di primaria importanza, e le vittorie militari contano nella capacità in cui influenzano le dinamiche nell’agone politico. È improbabile che l’equipaggiamento pesante richiesto dall’Ucraina possa contribuire alla difesa nel Donbass, almeno nelle prossime settimane. Tuttavia, la leadership ucraina è ben consapevole che un aumento repentino delle proprie capacità militari peserà sui futuri calcoli dei russi.
Un esercito in grado di montare operazioni più dinamiche, calibrato su una guerra di logoramento ma capace di contestare gli invasori anche in campo aperto complicherebbe immensamente l’ambiente strategico in cui l’esercito russo andrebbe a operare. Ed è proprio questa complessità ad avere un impatto sulla durata del conflitto e sull’intensità degli attacchi sferrati dai russi.
È evidente che tutto questo peserà sui negoziati e che, da un punto di vista operativo, un upgrade dell’esercito ucraino non può che avvenire nella maniera più rapida possibile: più tempo i russi avranno per anticipare il riequilibrio di forze a favore di Kiev, meglio riusciranno a intervenire con contromisure adeguate. E più monterà la pressione sul comando russo per agire con forza prima che si chiuda la finestra di opportunità.