Che cosa succede quando artisti, chef, docenti e comunicatori del cibo si incontrano e dibattono sul concetto di arte? Può il lavoro di cucina essere paragonato a quello creativo proprio dell’artista? Arte e cucina. Cucina e arte. Si tratta di un binomio che ormai torna sempre più sovente. In molti hanno provato a rispondere a queste domande, in tanti non hanno colto nel segno: perché al di là di ispirarsi a lavori artistici per costruire un piatto, in modo che sia una sua effettiva rappresentazione, in pochi sono riusciti, attraverso il cibo, a fare arte, e forse uno dei pochi è stato proprio il primo cuoco italiano a fare la differenza, Gualtiero Marchesi.
La musicista Simona Marchesi, figlia del signor Marchesi, non ha dubbi: «Mio papà diceva ‘Io non cucino, faccio arte’». Un padre nato non come cuoco, ma come uomo che voleva essere un artista e da artisti è sempre stato circondato. Da qualche parte questa vocazione doveva pur saltare fuori, lo ha fatto tramite la via della cucina, affare di famiglia nell’albergo Mercato.
La ricerca di questi problemi parte dalla filosofia, dunque voce ai filosofi come Aldo Colonnetti «La cucina non è arte». Un’affermazione che potrebbe far storcere il naso ai più grandi appassionati del settore, ma che nasconde dietro una spiegazione affascinante: la cucina non è arte nel senso classico, dato che questa si manifesta in un’opera che non è classificabile. «Questa non è una affermazione negativa» avverte lo storico dell’arte; infatti, arte e scienza vengono messi spesso insieme quando si parla di cucina. E qui spunta un secondo binomio, forse alternativo, cioè quello tra cucina e scienza. La cucina, del resto, se non è arte in senso classico, è arte applicata «come il design, come l’architettura, come la moda».
Se la cucina non sarà arte nel senso classico, potrà essere filosofia. E come in ogni dibattito filosofico che rispetti, ad una voce autorevole deve seguirne una altrettanto tale, come quella del filosofo e professore ordinario di estetica presso l’università di Pollenzo, Nicola Perullo. Il docente ha da sempre indagato il mondo della cucina dal punto di vista filosofico. «La cucina è arte nella misura in cui si può intendere l’arte come una cucina». Il significato di questa massima risiede in due implicazioni: sottrarre l’arte al mito dell’individualità e dell’originalità assoluta. «Noi siamo molto legati, per un pregiudizio romantico di 200 anni, ad un’idea di arte che vede il genio creatore di qualcosa come individuo assoluto, fuori dallo spazio, dal tempo e dai contesti». Un tempo però non era così, un tempo l’artista era chi faceva le cose alla perfezione, non a caso non esisteva la differenza tra arte e artigianato.
E quindi, dov’è l’arte nella cucina? «C’è tanta arte anche nell’atto del mangiare!» per l’architetta e designer, Paola Navone. L’arte non si mangia, si consuma solo con gli occhi, cosa che invece non accade col cibo. Il cibo si guarda e poi si mangia: «I design più lontani stanno dal cibo meglio è. Cosa vuoi disegnare? Il tarallo fatto diverso? C’è un abuso del termine artista». Una nota di ironia, mista ad un tocco critico, che non fa male in un periodo storico dove non è poi così facile restare con i piedi per terra. All’artista e docente delle belle arti dell’accademia di Brera, Aldo Scoldi, su questa linea di pensiero è stato chiesto «Si può mangiare l’arte?». «Si mangia l’arte se si mangia il mondo e il mondo non è facile da prendere» la sua risposta.
Parlando di arte, non si può prescindere da un discorso subordinato a questo: fare l’artista. Per il direttore editoriale di Artribune, nonché docente della IULM, Massimiliano Tonelli, ci sono due strade: fare l’artista ed essere artista. «Difficilmente si può parlare di arte quando si arriva ad un prodotto come quello di una cena». Non si tratta però di una regola assoluta, dato che ci sono delle eccezioni per cui questa massima si può controvertere. Proprio Gualtiero Marchesi, in passato, ha fatto ambedue le cose: essere artista e fare l’artista. Ad oggi altri cuochi, come Niko Romito, stanno portando avanti questi concetti. Basti pensare al riso e oro, che racchiude l’essenza del comportamento di un artista contemporaneo.
E tra i suoi discepoli, com’è vista l’arte applicata alla cucina? «Marchesi è stato il primo a mettere opere al suo ristorante, ma tanto vinceva sempre la sua galleria d’arte, che era la cucina» afferma Davide Oldani. Come non ricordare il raviolo aperto o ancora il risotto allo zafferano e oro, lo spaghetto al caviale. «Non è facile creare un’opera e renderla gustosa», prosegue lo chef, del resto la vera opera d’arte di un piatto è il gusto. «Per me la cucina non è esattamente arte, ma suscita le stesse emozioni. Per me l’arte è quella che vedo rappresentata, astratta o concreta o in qualsiasi altra forma sia» sostiene invece Enrico Bartolini, che poi porta un esempio sui generis: la cornucopia rinascimentale, che se viene dipinta da Botticelli è certamente arte, se composta dal cuoco invece no. «Prima c’erano solo i sapori, poi l’arte ha dato maggior valore alla cucina, anche sul fronte della nutrizione. Grazie a Gualtiero Marchesi e ad altri illustri colleghi, siamo meno bisognosi di paragonare la cucina all’arte, parliamo di cucina con un senso di prestigio». Per lo chef pluri-stellato la differenza tra l’essere creativo e l’essere geniale è immediata: il creativo ha sicuramente ottime idee, il genio è chi stravolge le cose.
Pietro Leemann, invece, pone in luce un ulteriore problema: nel termine “estetica” c’è anche “etica”? Per lo chef questo è un legame fondamentale, imprescindibile. «L’arte deve sempre suscitare un piacere», per questo etica ed estetica devono andare sempre a braccetto. «A volte l’artista viene posto come una persona di grande cultura e approfondimento, ne ho conosciuti tanti che non erano così, come i cuochi». Quindi, in questo senso, Gualtiero Marchesi è stato un rivoluzionario e – al contempo – un amante della cultura: il suo tentativo è stato quello di elevare la cucina e l’arte. «In cucina a volte ci si limita alla forma, si è persa l’essenza. Un piatto non può essere solo formale. I piatti di Marchesi erano espressione e prolungamento della sua personalità».
In conclusione, può dirsi che tante sono ancora le questioni irrisolte, perché per loro natura non si prestano facilmente a risposte definitive. Si prestano però al dibattito, alle osservazioni, coerentemente allo scopo di un incontro come questo, che mira a trovare problemi critici su cui discutere, come ha spiegato il presidente della fondazione Gualtiero Marchesi, Alberto Capatti. In definitiva, possiamo dire che si tratta di un tema davvero inesauribile, che ben viene raccontato nel libro della fondazione Marchesi edito da Cinquesensi.