No, un momento, facciamo a capirci. Se a margine di una notizia fiorisce una prova, almeno un indizio, che ne compromette la credibilità, allora è lecito scrutinarla anche a fondo. Possibilmente con l’intento di ristabilire la verità negata dalla notizia falsa, più che con quello di contestare punto e basta la falsità della notizia: che sono atteggiamenti profondamente diversi e molto diversamente orientati (uno teme la verità della notizia, l’altro teme che sia diffusa).
E così, se la notizia riguarda un eccidio, va benissimo approfondire quando c’è il segnale che possa essere inventato. Ma un’altra cosa è quel che si è fatto con il massacro di Bucha, e prima con l’ospedale bombardato, e prima con gli stupri e giù giù sino all’inizio dell’aggressione russa, tutte vicende rispetto alle quali buona parte dell’informazione – non solo quella più gioiosamente embedded in Kremlin – si è predisposta non per farne cronaca, ma per metterne in sospetto la verosimiglianza: e, appunto, nell’assenza di qualsiasi serio elemento che denunciasse il pericolo di fake.
Salvo credere che fosse meritevole di considerazione, e tale da mettere la notizia tra le cose incerte, l’agenzia russa secondo cui l’ospedale era un covo di nazisti camuffato, o il video che svela la resurrezione dei morti sulle strade dopo il passaggio della telecamera ucraina che mette in scena la teoria di morti ammazzati con le mani legate dietro la schiena.
Spacciata per doverosa cautela e precisione professionale, è questa la meccanica reazione ben diffusa presso il grosso dell’informazione (ripeto, non soltanto nei ranghi della Tv-immondizia più sfrontata nel velinismo delle “operazioni speciali”): e cioè dare la notizia “processandola”, ora contestandone apertamente il fondamento, ora insinuando che però, chissà, vai a sapere, perché è noto che in guerra la prima vittima è la verità.
E se anche nulla, ma proprio nulla, mette in sospetto la verità che appare, ebbene comunque bisogna sospettarne perché la mission del giornalista coi controcazzi è quella, hasta la verdad siempre, una bella visita ginecologica per verificare che lo stupro non sia la bubbola di una sciroccata in cerca del quarto d’ora di celebrità.