La gallina è un animale intelligenteIstruzioni per scegliere con garbo un uovo

Allevate senza poter vedere la luce del sole, private del becco e sottoposte a trattamenti inumani. Succede ancora questo negli allevamenti intensivi e la scritta "allevate a terra" non è indice di civiltà. Da consumatori possiamo chiedere un cambio di passo scegliendo aziende che adottano metodi cruelty free

Ogni anno l’impennata nella vendita di uova di gallina ci conferma quale sia l’indiscusso simbolo della Pasqua. Ma negli ultimi tempi il consumo di uova ha visto dati positivi di vendita estendersi lungo tutto l’anno, portando il consumo pro capite (diretto e indiretto) dalle 208 uova del 2019 alle 219 del 2020. I dati, segnalati nel report Ismea, ci confermano come l’uovo rappresenti un alimento perfetto sotto numerosi punti di vista, e come questo sia maggiormente ricercato in periodi di crisi, grazie anche a due sue caratteristiche fondamentali: il basso costo e l’alto valore nutritivo. In questo, l’uovo non ha eguali.
Il report porta alla luce anche come i consumatori – e tutti gli attori della filiera avicola – siano più attenti rispetto al passato al benessere animale, spostando leggermente l’attenzione su uova prodotte in allevamenti che sono più a misura di gallina. Diminuisce infatti la vendita di uova provenienti da allevamenti in gabbie arricchite (23% sul totale delle uova vendute), ma c’è troppo poco margine per le uova allevate all’aperto (il 3% delle uova commercializzate) e per quelle bio (10%). Il rimanente 60% proviene da galline allevate a terra. Insomma, pare che per la maggior parte degli italiani sia accettabile che una gallina viva la sua vita senza mai vedere la luce del sole, solo per darci la possibilità di mangiare le uova sode con l’insalata nelle serate post palestra.

Sensibili, ma non abbastanza
L’ultima volta che ci siamo dispiaciuti in massa per delle galline è stato nel 2012, con l’entrata in vigore della legge che poneva il divieto di allevare le galline in batteria, sistema che le costringeva a una vita miserabile. Fino a quel momento, nessuno sembrava conoscere le condizioni disumane in cui nascevano le uova per le nostre omelette. Da allora, molti consumatori sono diventati più sensibili e hanno iniziato ad acquistare solo uova allevate all’aperto o biologiche. Ma c’è un aggiornamento: tutto questo non ha migliorato poi così tanto la vita dei pennuti.
L’abbandono del sistema di allevamento in batteria è stato sì un traguardo per il benessere animale, ma non è il solo sistema a limitare la vita dignitosa di una gallina. La filiera delle uova è ricca di sistemi e metodi che facilitano l’azienda peggiorando la condizione dell’animale, fin dal primo momento della nascita.

Il primo scempio avviene già alla schiusa delle uova. Ad oggi, i pulcini maschi – e quindi non idonei per la produzione delle uova – vengono soppressi alla nascita. Una pratica che ci mette tutti davanti a questioni etiche oltre ad avere un impatto ambientale discutibile. Su questi temi si è mossa la Comunità Europea e, lo scorso dicembre, la Camera ha approvato l’emendamento che vieterà l’abbattimento dei pulcini maschi, recependo la direttiva UE in materia di benessere animale. Entro la fine del 2026 quindi, l’Italia dovrebbe adeguarsi a nuovi divieti che obbligheranno gli addetti alla filiera avicola di «favorire strumenti per il sessaggio degli embrioni “in ovo” per identificare il sesso del pulcino prima della schiusa, così da eliminare le uova che contengano pulcini maschi», ed evitare così che gli animali appena nati vengano soffocati o tritati vivi. Perché è questo quello che succede lungo la filiera delle uova; si lasciano vivere solo galline che riempiranno di uova gli scaffali del supermercato. Saremmo il terzo Paese a mettere in vigore queste regole, dopo Francia e Germania che hanno iniziato proprio quest’anno, ma siamo in attesa dell’approvazione da parte del Senato (la votazione era prevista già all’inizio dell’anno, ma ancora nulla di fatto).
Oltre la soppressione dei pulcini maschi, che Lav, la Lega Antivivisezione, stima siano 40 milioni l’anno solo in Italia, si consente anche il debeccaggio, nonché l’eliminazione di una parte di becco delle galline per evitare che feriscano le compagne di cella e possano così generare loro problemi di salute. In realtà le galline non sarebbero neanche così aggressive se non fossero costrette a condividere così poco spazio. Se ne deduce che il problema, anche qui, non è il carattere dell’animale o il suo becco, ma il trattamento che gli riserva l’allevatore. Pur avendo eliminato le batterie – le gabbie che costringevano le galline a trascorrere la loro vita praticamente immobili – permangono gli altri sistemi al quanto discutibili.

Dalla gabbia alla terra
Questa forma di allevamento continua a esistere, seppur in gabbie che vengono definite “arricchite”, nonché spazi dove le galline hanno un po’ di margine di movimento per le loro azioni ma è comunque un sistema costrittivo. Le uova allevate in gabbia sono ormai quasi assenti dal commercio al dettaglio, grazie all’impegno di alcune catene che si sono impegnate in scelte etiche. Lo spazio di mercato per queste uova si restringe anche nell’industria alimentare: secondo l’EggTrack, il report sui progressi verso l’abbandono delle uova in gabbia redatto da Compassion in World Farming, in Italia sono sempre di più le aziende che scelgono di usare uova provenienti da altre forme di allevamento. Sempre entro il 2026 l’Italia dovrebbe dire addio all’allevamento in gabbia recependo una direttiva UE ma, da quanto si evince dai dati, tutti gli attori della filiera, sono ben disposti a adeguarsi prima del tempo, compresi i produttori che sembrano aver capito che è tempo di cambiare passo. Spiace per quelle aziende e catene di supermercato che non hanno dichiarato una loro posizione in merito (trovate tutti i nomi qui). Ma sarebbe bene ricordare loro la posizione di quelle povere galline in gabbia.
E non va molto meglio per quelle a terra. Nove galline per metro quadro in uno spazio in cui sono libere di muoversi, ma senza sfogo all’esterno. Ricordiamoci di noi chiusi in casa durante in lockdown con molto più spazio a disposizione, ma senza la possibilità di uscire. Non sembravamo molto sereni. A questo si aggiunge la pratica triste di lasciare vivere le galline costantemente alla luce artificiale per spingerle a non interrompere la produzione di uova. Confondono il giorno e la notte, l’estate e l’inverno e sono spinte a un ciclo di produzione di uova costante. Galline che per altro, non si godranno la vecchiaia perché più sono mature, meno uova producono, e per il mercato diventano inutili dopo già un anno di età. Indovinate che fine faranno.

All’aperto e biologiche
Le galline godono di un metro quadro da dividersi in nove, più ulteriori quattro metri quadri all’esterno per capo. Una forma che consente all’animale di avere un contatto con l’ambiente, cosa che non andrebbe negata a nessun essere vivente. Simile all’allevamento all’aperto, ma con “sole” sei galline per metro quadro negli spazi al chiuso invece di nove, oltre a un’alimentazione che deve essere per il 50% proveniente da agricoltura bio. Il mercato ci presenta le uova bio come la migliore scelta possibile per il benessere animale, ma non è così. Forse è la migliore dentro un supermercato. Nel libro Nati Sostenibili – lettura assolutamente consigliata per chi vuole capire meglio cosa significhi la sostenibilità alimentare – la curatrice Sara Porro dedica un capitolo alla gallina recandosi al Principe di Fino, un allevamento estensivo di ovaiole che, nelle regole e nella gestione, condivide ben poco con gli allevamenti che riforniscono di uova l’iper-market. Durante l’intervista alla proprietaria emergono le criticità anche sulla certificazione bio e di come questa venga un po’ aggirata. «La legge prevede che le galline abbiano accesso a uno spazio esterno per un numero minimo di mesi all’anno. […] Per i primi mesi le tengono chiuse nel pollaio – come è consentito – e poi aprono una porticina. Le galline però sono animali abitudinari, se non l’hanno mai fatto prima, a quel punto esiteranno ad avventurarsi fuori; e quindi vivranno tutta la vita rinchiuse, comunque».

Quanto siamo disposti a spendere?
Come sempre, nella scelta alimentare si presentano numerose sfide che convergono su un unico prodotto. Prima ancora di scegliere, dovremmo chiederci quanto valore diamo all’uovo che mangiamo. Saremmo disposti a spendere qualche centesimo in più per supportare prodotti che operano anche nell’interesse dell’animale? In media, un cartone di uova del supermercato costa molto meno di qualsiasi altro prodotto alimentare. Può valere la pena investire in uova migliori e rinunciare a qualcosa di meno fondamentale. Se non ci balena l’idea di comprare uova fuori dal supermercato, cercate produttori, marchi e insegne che fanno scelte che tutelano il benessere animale. Coop, per esempio, è la prima (al momento unica) catena che ha deciso di vendere una linea di uova cruelty-free, in cui garantisce metodi che non portano all’uccisione dei pulcini maschi alla nascita. Altre catene, invece, non hanno mai nemmeno preso l’impegno di attivarsi sul tema (Unes sembra una di queste). Ma da consumatori possiamo chiedere che dentro i nostri supermercati arrivino prodotti che seguano il passo di un sistema più giusto. In ultimo, non per ultimo, non rimane che cercare allevamenti estensivi vicino a noi, o magari lontani ma con un e-commerce. Questa opzione potrebbe impattare notevolmente nell’economia domestica perché può raddoppiare, se non triplicare il costo delle uova. Ma ci è più utile un euro in più in tasca o la consapevolezza di un gruppo di galline amiche che razzolano felici?

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