Nella figuraccia di Giuseppe Conte da Lilli Gruber (si è indignata persino lei!) con il non pronunciamento tra Emmanuel Macron e Marine Le Pen c’è qualcosa che va più in là dell’aspetto politico. Riguarda quello umano. Non scegliere certe volte può essere persino una scelta ma non è questo il caso, ed è penoso chi vede nella sua mancata risposta un allineamento dell’avvocato a Jean-Luc Mélénchon che si è invece schierato, sia pure in negativo, escludendo il voto alla leader di estrema destra.
Il sospetto che abbiamo è che dietro l’imbarazzata non-risposta dell’ex presidente del Consiglio su una domanda così semplice – stai con Macron o con Le Pen? – ci sia un pauroso vuoto di idee, uno smarrimento psicologico e persino esistenziale, la stanchezza di un uomo politico massacrato dalla cronaca (il doppio pasticciaccio tra Trump e Putin), l’eclissarsi di una strategia, il venir meno di punti di riferimento politici, forse un esaurimento delle energie che lo porta a menare fendenti nell’aria come Don Chisciotte di fronte ai mulini a vento: e così una volta abbaia contro Mario Draghi, un’altra contro i francesi, un’altra contro l’atlantismo, un’altra ancora persino contro il mite alleato – l’unico che lo porta ancora a pranzo – Enrico Letta.
All’uomo che dribblando la coerenza senza alcun scrupolo passando da una alleanza all’altra, a furia di voltare gabbane è venuto un giramento di testa che non gli fa più distinguere un liberale da una fascista e gli impedisce di articolare un ragionamento davanti a una giornalista che non gli è certo nemica ma alla quale non è restato che sbottare: «Lei è ambiguo!».
Si può anche sostenere che la politica della non-scelta e della, appunto, ambiguità dell’ultimo Conte rappresenti un suo maldestro tentativo di ritornare alle origini del Movimento 5 stelle, al suo nichilismo protestatario – nobilitiamo così il qualunquismo di Beppe Grillo: ma non è neppure così, perché Alessandro Di Battista, alla sua maniera, è un tipo che sceglie, quasi sempre sbagliando ma sceglie.
Il Movimento delle origini a suo modo faceva politica, altrimenti non avrebbe preso il 30 percento dei voti, laddove questo Conte pare davvero il primo che passa, altro che Mélénchon, nervoso, irascibile, piagnucolando che i giornalisti non lo capiscono.
Molto si domandano come faccia il Partito democratico a sopportarlo ancora. A non battere ciglio sul fatto che il suo alleato sia indifferente se a Parigi lunedì ci sarà un europeista o una sovranista.
La verità è che ormai al Nazareno lo considerano un uomo del passato e senza futuro, l’esecutore testamentario del M5s e l’involontario distributore di voti – il Pd ritiene che molti gliene arriveranno – una mina vagante ma tutto sommato innocua (avete visto che inutile sarabanda fece sull’aumento delle spese militari?) ma col quale è meglio evitare plateali rotture, sarebbero una rogna che forse gli ridarebbero un po’ di linfa: meglio farlo cuocere nel brodo della sua insipienza, l’avvocato, lasciarlo nel suo mondo di rancori tra i fantasmi delle macchinazioni con trumpiani e putiniani e giochetti di sponda con Matteo Salvini, tanto tutti sanno che la fine è nota, non manca poi molto prima che lo facciano fuori da un’ovattata stanza della Farnesina.