Certo, non si potrà andare avanti sempre a colpi di scostamenti di bilancio e spese in deficit. È giustissimo procedere in sintonia con Bruxelles. Bisogna però avere chiaro che stiamo vivendo tempi eccezionali e le richieste dei partiti non sono solo il vecchio assalto alla diligenza per motivi elettorali.
Una linea prudente sta segnando la resistenza del governo che ha messo a disposizione sei miliardi di aiuti economici. Il Parlamento ha votato ieri il Def, il Documento di economia e finanza che libera risorse, che sono appunto questi sei miliardi contenuti nel nuovo decreto in arrivo la prossima settimana. Nuova sforbiciata alle accise della benzina da 25 centesimi, proroga degli aiuti alle famiglie e alle imprese contro il caro bollette e ai rincari delle materie prime, proroga al 30 agosto del termine del superbonus per completare il 30% dei lavori. E altro.
Tutto giusto e utile, ma per i partiti (tutti tranne Italia Viva di Matteo Renzi) si tratta di pannicelli caldi e chiedono decine di miliardi in più. Mario Draghi e Daniele Franco non escludono un altro scostamento di bilancio se la situazione economica dovesse peggiorare, se le onde sismiche di cui parla il Fondo monetario internazionale diventassero sempre più devastanti. Il premier e il ministro dell’Economia non chiudono la porta ma per il momento frenano: la coperta è corta. Quindi, calma e gesso, perché non si può fare tutto adesso, è il loro messaggio, non è chiaro come finirà la delicata partita del petrolio e del gas russo, se e quando chiuderemo i rubinetti di Mosca. Quanto a lungo durerà la guerra in Ucraina e quali esiti avrà. Le variabili sono tante e Draghi ha chiaro che, senza un Fondo energetico straordinario dell’Europa, lo scostamento di bilancio sarà necessario. Per il premier è necessario procedere con i piedi di piombo perché non si possono fare certe scelte sull’onda degli istinti elettorali che in questo momento pervadono le forze politiche in vista delle comunali di giugno, delle regionali di settembre, per non parlare delle Politiche del 2023.
Un brivido è salito lungo la schiena dei leader politici quando hanno letto l’intervista al Corriere della Sera del premier che prospetta sacrifici per i cittadini – e non si tratta semplicemente di limitare da giugno l’aria condizionata e i riscaldamenti negli edifici della Pubblica amministrazione e nelle scuole. Il premier sollecita piuttosto l’impegno per la realizzazione il Pnrr, che sta immettendo nelle vene dell’economia italiana tanti miliardi. I capi dei partiti, diversamente uniti, hanno altre esigenze, più impellenti. Nessuno finora lo dice esplicitamente, ma in camera caritatis fanno notare che Draghi non ha il problema di raccogliere voti, della competizione elettorale. Non a caso, viene sottolineato, nella stessa intervista al Corsera ha detto di non avere alcuna intenzione di candidarsi alle prossime Politiche, di continuare la sua esperienza di governo. Che non farà un suo partito, come fece Mario Monti nel 2013 con la lista Scelta Civica, ci credono tutti. Che possa tornarsene nel suo casale di Città della Pieve pochissimi ne sono convinti.
Rimane il fatto che prestissimo lo scontro politico avverrà tra i partiti della stessa maggioranza. Sono loro che nelle urne dovranno parare i colpi della crisi economica. Sono loro che dovranno fare i conti con il malcontento che sta crescendo tra gli elettori. Sono le forze politiche che avranno a che fare con il potere d’acquisto in caduta libera delle famiglie, l’inflazione che si impenna, con quelle imprese che perdono quote di mercato ma non possono mollare anche a costo di produrre in perdita. Cartiere, ceramica, vetro, acciaio, cerali, mangimi per alimenti zootecnici, tante filiere di imprese vicine al collasso. Ogni forza politica ha il suo ceto sociale di riferimento in difficoltà, in crisi, impaurito. Noi non riusciamo a diminuire il costo del megawatt come ha fatto Macron (in Francia è stato dimezzato), che domenica prossima si gioca l’Eliseo con Marine Le Pen, la quale batte come un fabbro sulla perdita del potere d’acquisto dei suoi “compatrioti”.
Draghi ha ragione ad attendere, a essere prudente, ma sbaglierebbe se dovesse considerare le richieste dei partiti come lunari, a ridurle a interessi miopi di bottega che in passato hanno prodotto l’enorme nonché scandaloso debito pubblico italiano. Non bisogno essere ingenui. Il calcolo elettorale è sicuramente prevalente, tuttavia in questo tornante della storia c’è in gioco ben altro: evitare che dalla crisi innestata dalla guerra Ucraina, l’Italia e tutto l’Occidente ne esca a destra, faccia prevalere quei populismi che a parola si vogliono evitare. Non si può sempre gettare addosso ai partiti il peccato atavico della spesa pubblica e, in questo caso, di un nuovo scostamento di bilancio, dicendo che fanno squallidi calcoli dentro le urne. È anche così che si nutrono i populismi.
Sarebbe invece meglio pensare che il vero e unico problema non è la resistenza delle forze politiche, ma quanto resisteranno i cittadini in carne e bollette. Per quanto valgano i sondaggi, ci dicono che c’è già una prevalenza di italiani che non vorrebbero mandare armi ai resistenti ucraini, uno spicchio di opinione pubblica, ancora minoritario per fortuna, per il quale Putin in fondo non ha tutti i torti.
Insomma, a un certo punto, se ci avvitassimo nella spirale recessiva, l’ennesima, la reazione degli elettori potrebbe essere devastante a vari livelli, anche di ordine pubblico. Draghi non può girarsi dall’altra parte, non potrà a lungo essere prudente e dovrà mettere mano alle risorse che servono. È proprio il caso di dirlo: se non ora quando?