Il primato dell’operaPerché dobbiamo tornare a Francesco De Sanctis, il virtuoso dell’impossibile

Oltre ai suoi giudizi inoppugnabili e le considerazioni ancora attuali, c’è la sua visione di letteratura, che è, soprattutto, lo spazio dove avviene quel quid non ancora realizzato, ma che è reale quanto gli avvenimenti della storia dei popoli

Brandi Redd

Diario del lettore #40

Credo che il lettore del Diario lo sappia: prediligo l’opera, il libro compiuto e rifinito, e consegnato dall’autore – con una sola eccezione, ovvia: L’uomo senza qualità. Sono poco incline agli entusiasmi per gli scartafacci e la mistica della variante, pur ritenendo la pratica rigorosa della filologia necessaria allo storico: necessaria, non sufficiente. Sono renitente alla mitologia del frammento, così novecentesca e chic. A emozionarmi sarebbe semmai il “visto-si-stampi” di mano dell’autore sulle bozze. Le opere, sono le pietre di paragone: e servono l’uomo.

Va da sé che allora legga e rilegga quelle che considero le opere e vengono dette i classici, e opere italiane: non tanto per necessità di dottrina quanto per esigenza di nutrimento e di confronto – e per respirare, in questi tempi di angustia e di asma, non che per conforto e premio all’orecchio. Ora, se per le arti figurative è sempre a Roberto Longhi che torno, per la letteratura deve rimontare indietro e non di poco. Torno a Francesco De Sanctis e alla sua Storia della letteratura italiana.

(Il Novecento italiano non ha avuto un Roberto Longhi della letteratura, uno storico della letteratura capace di dare un disegno della letteratura italiana convincente, per solidità di concezione e di dottrina, nonché per respiro e qualità saggistica; e neppure limitato all’età moderna. Insomma, non abbiamo avuto un Albert Thibaudet e il corrispondente alla sua Histoire de la littérature française de 1789 à nos jours. Non è una mancanza da poco, e ha ragioni ben precise).

Sono tre le ragioni per cui vale tornare a De Sanctis: sempre le stesse e fresche: e non cambiano. La convinzione, direi naturale, dell’eteronomia della letteratura (l’arte tutta) e allo stesso tempo il suo primato; l’idea della letteratura come arte che con più esattezza esprime l’identità di una nazione e il grado di coscienza di quella; il pensiero che la letteratura (l’arte tutta) sia lo spazio dell’impossibile, quel quid non ancora realizzato (l’opera, quale sia l’ambito) che è reale quanto gli avvenimenti della storia dei popoli. Più un bonus: i giudizi memorabili come sentenze, e paiono inoppugnabili, e il ritrovare motivi d’allora che tornano a suonare al presente e bene. Succede così, con le opere: sono viventi e sempre nuove.

Francesco De Sanctis viene da Hegel e dalla teoretica idealista: pure è innegabile come non si schiacci su quella, tutt’altro: l’unico principio a cui è fedele è quello dell’uomo come materia della letteratura: e così l’eteronomia, che è il corollario principe e non discutibile. La letteratura è anzitutto storica: uno scrittore è parte di una serie storica, con un precedente e un succedente, e come tale va letta e interpretata. Oggi la teleologia storica hegeliana e il suo figliastro, il materialismo dialettico marxiano, non sono più sostenibili: sappiamo che, per dirla con Longhi, la storia non è un orario ferroviario: ci sono precocità, attualità, ritardi – e sono in conflitto. Vale andare da Henri Focillon, che lo ha espresso in modo memorabile: «La storia non è affatto unilineare e puramente successiva: può essere considerata come una sovrapposizione di presenti largamente estesi». Pure, anche al lordo della teleologia hegeliana, De Sanctis si legge e rilegge con l’entusiasmo e l’urgenza della prima volta: c’è ardore: e l’intelligenza critica va oltre la dottrina. Come spiegare altrimenti l’esattezza con cui segna la statura di Leopardi, che certo non figurava nella schiera dei fedeli allo spirito progressivo? L’uomo e la sua qualità prima di tutto: questo è De Sanctis. Sono non pochi gli scarti rispetto alla dottrina; e sempre per fedeltà all’uomo, il rigore del suo discorrere e la qualità del suo operare. Tutto per una prosa conversevole e pronta ad accendersi.

(De Sanctis scrive male: è la sentenza, passata in giudizio. Non si possono tacere le goffaggini, ma non così frequenti; non si può tacere e acconsentire a un certo andar di ottoni, a volte; si potrebbe aggiungere altro ma vorrebbe dire tirare al tedio; ma quando penso alla prosa di De Sanctis e alla non-so-cosa della “produzione scientifica” accademica, allora: che scrittore, De Sanctis!).

Il cuore della Storia è il dire il nascere e il perdurare di una coscienza italiana, il gran progetto del Risorgimento, e così di una letteratura italiana e moderna. Oggi sappiamo le rovine delle “magnifiche sorti e progressive”: ci circondano e prive di splendore, vi circolano i ratti del populismo: così leggere De Sanctis è un balsamo, intendere i tempi lunghi della storia e alla luce del paradigma primo della durata (Albert Thibaudet, come Henri Focillon e Marcel Proust, viene da Henri Bergson) offre al testo della Storia una profondità nuova e differente. «Ci vogliono secoli prima che si formi una coscienza collettiva; e formata che sia, non si disfà in un giorno. Chi mi ha seguito e ha visto per quali vie lente e fatali si era formata questa coscienza italiana, può giudicare qual criterio e quanto buon senso fosse nell’impresa del frate [Savonarola]. Nella storia c’è l’impossibile, come nella natura», scrive De Sanctis: e tout se tient e per via di quella parola negletta: l’impossibile, che per De Sanctis è sinonimo di occasione da cogliere e principio del lavoro critico. Dice bene Giorgio Ficara: «De Sanctis, nella Storia della letteratura italiana, è un maestro e un virtuoso dell’“impossibile”» – e vorrei averlo scritto io. Tornare a De Sanctis è tornare a credere nell’impossibile che è nelle rovine della storia e abbandonate: lì dove giacciono tutte le opere che non sono state, i sogni che non sono svaniti, le visioni che aspettano solo di accendersi. Che altro serve? Nient’altro: questa è la letteratura, e vale la pena dell’oggi.

(Il problema della coscienza nazionale o, se si preferisce, dell’identità italiana è “il” problema e irrisolto sempre. Da Giacomo Leopardi a Giulio Bollati, fino ad arrivare a Alfonso Berardinelli, le belle menti e letterarie ci hanno consumato le ore e i giorni non invano. E questa è un’altra storia, per un’altra volta).

Il piacere del testo in De Sanctis è il piacere per il tourbillon dell’argomentazione (Gianfranco Contini le dice «giostre lessicali») che porta al lampo della sentenza. Questo per Vittorio Alfieri: «Scrisse come viaggiava, correndo e in linea retta: stava al principio e l’animo era già alla fine, divorando tutto lo spazio in mezzo. La parola gli sembra non via, ma impedimento alla corsa, e sopprime, scorcia, traspone, abbrevia; una parola di più gli è una scottatura. Fugge le frasi, le circonlocuzioni, le descrizioni, gli ornamenti, i trilli e le cantilene: fa antitesi a Metastasio. Tratta la parola come non fosse suono, e si diletta di lacerare i ben costrutti orecchi italiani». Saranno anche “giostre”, ma si può dir meglio l’Alfieri? Il piacere diventa doppio quando una lettura rimanda all’oggi: «L’ironia è la forma delle vecchie società, non ancora conscie della loro dissoluzione. È il vecchio che vuol farla da giovine con tanta più ostentazione nelle apparenze quanto più meschina è la sostanza». Non è perfetto a dire il postmoderno in tutte le sue infinite e insignificanti manifestazioni? Si può dir meglio l’inconsistenza dei Vetrinisti, quelli che si beano del gesto estetico e non sanno l’opera d’arte e mai la sapranno? De Sanctis sta dicendo di Parini, continuiamo: «Questo è il concetto fondamentale del Giorno, fondato su un’ironia che è nelle cose stesse, perciò profonda e trista. Parini non vi aggiunge che il suo rilievo, una solennità di esposizione che fa più vivo il contrasto (…) Ride di mala grazia, e sotto ci senti il disgusto e il disprezzo. L’Italia aveva riso abbastanza, e rideva ancora ne’ versi di Passerotti e di Goldoni». Non ha riso abbastanza anche la nostra Italia d’oggi, tra comici di mestiere e di vocazione, a non dire gli involontari? Tornare a De Sanctis è tornare all’ardore e alla serietà dell’ideale.

Non si finirebbe mai di scrivere di De Sanctis, tante sono le aperture e gli spunti per il discorrere di letteratura, a partire dalla definizione di forma, che sta all’inizio del suo pensiero (della sua poetica, vien da dire):«Io sostenni che il concetto non esiste in arte, non nella natura e non nella storia. Il poeta opera inconsciamente, e non vede il concetto, ma la forma, nella quale è involto e quasi perduto (…) Perciò distinsi la forma dalle forme, e chiamai forma, non il concetto, ma la concezione, che è come l’embrione generato dalla fantasia poetica». Dove tutto è in due parole: forma e fantasia. Dove fantasia va intesa nell’accezione greca: facoltà dell’indicare. De Sanctis non smette di indicare una strada, a dire l’impossibile.

Infine, bisogna tornare alle opere e stare su quelle: lì è il vero acquisto d’idee che possono diventare forme: arte, letteratura, politica. Oggi sono le opere della prima Modernità: da Diderot a Baudelaire, fino a Thibaudet, Focillon e Marcel Proust: e da  Parini e Beccaria, fino a Manzoni, Leopardi e De Sanctis. Nelle loro opere sono tutti i libri che aspettiamo – e chi sa che non arrivi un altro De Sanctis.

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