SaggismiElogio dello scrittore-lettore Alfonso Berardinelli

Il critico letterario è stato tra i primi ad avvertire come la letteratura italiana, la prosa soprattutto, abbia perso il legame con la Tradizione. La forza della sua riflessione viene dall’allargare il tema a quello della identità storica italiana e la idea di realtà

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Parliamo di Alfonso Berardinelli: è giusto farlo e bene. Non è un grande saggista e così un grande interprete, non è un filologo ben temperato e non è uno storico della letteratura: pure se c’è uno scrittore-lettore che non posso fare a meno di leggere, oltre a saggisti come Giorgio Ficara e Salvatore Silvano Nigro, quello è Berardinelli. Oggi, in tempi più molli e vischiosi, e senza la carica narcisistica che gli era propria, Berardinelli ha il ruolo di Pasolini, quello che rimane e il migliore: Scritti corsari e Lettere luterane. Dire una cosa che noi soltanto intravediamo, tra letteratura e società, senza paura di essere politico: nessuno riesce a farlo come Berardinelli. Non è poco, e gli vale un posto di rilievo nella libreria e la stima.

Il primo libro suo che ho letto è stato L’esteta e il politico, nella gloriosa collana Nuovo Politecnico, di Einaudi. Era la fine degli anni Ottanta (Sapevo già di lui e della rivista che pubblicava in tandem con Piergiorgio Bellocchio: me ne parlava Grazia Cherchi, che capiva cose che a Milano allora solo lei). Per noi che avevamo vent’anni erano anni favolosi: si aspettavano le uscite dei Saggi arancio Einaudi, dei Saggi blu Garzanti, dei Saggi della Boringhieri, che dicevamo i Saggi neri per via del colore di fondo delle copertine. Era l’età d’oro del saggio letterario: a sfidarsi erano campioni del genere: e i saggisti italiani erano in cima. Sciascia e Calvino erano appena morti: sarebbero stati i grandi saggisti a tenere viva la prosa italiana. Coloro che rifiutavano la nascente “pura narratività” leggevano Garboli e Citati, Magris e Calasso, l’unico Manganelli, i più âgé Macchia e Camporesi, e indietro fino a Mario Praz. Intanto si avvertiva un’aria da nuovi tinelli: i reduci ora esibivano compiti i libri Adelphi e come prima di politica ora straparlavano di letteratura: pure s’infilavano dappertutto e senza ritegno. In tutto questo il libro di Berardinelli arrivò puntuale a dire la cosa, e già nel sottotitolo: Sulla nuova piccola borghesia. “Dal ’68 era nato il nuovo Ceto Medio, la nuova Middle Class, la nuova Piccola Borghesia. Una piccola borghesia certamente rinnovata: eclettica e nello stesso tempo monoculturale, nemica dei cosiddetti «ideali» e magnetizzata dalla società dello spettacolo, policroma, sradicata, fluttuante e soprattutto molto più estesa della piccola borghesia tradizionalmente nota” – un ritratto inciso di quel che vedevamo e non intendevamo fino in fondo. Era la prima ondata: la successiva si sarebbe data in massa a scrivere romanzi e a far bagni di gnagnera, tra una serie televisiva e un giro alla Nuvola. Berardinelli continuava: “Culturalmente si rifugiano in una Nuova Soggettività pronta a dare fondo all’intera tradizione culturale, opportunamente manipolata e ridotta in briciole, pur di crearsi una confortevole immagine di sé, un’identità attraente e suggestiva”. Era perfetto: diceva la cosa e i nuovi mostri che avrebbero popolato i tinelli letterari e i poggioli della gnagnera. 

Era un nuovo mercato, poi: sarebbero arrivati gli affabulatori e le scuole di scrittura: sarebbero nate case editrici pron(t)e a pubblicare libri per questo “nuovo lettore”, come lo dicono gli amministratori delegati-editori. Una nuvola, sì: di inconsistenza. Berardinelli l’aveva intravista e lo diceva senza nessuna remora.

Intanto, dopo dodici anni di forte presenza, abbandonava la cattedra universitaria – caso più unico che raro – e iniziava a scrivere con continuità su quotidiani e riviste. Ora la casa editrice il Saggiatore pubblica un libro necessario a capire l’autore e la natura e qualità della sua opera: sono tutti gli articoli pubblicati dal 2013 al 2020.  Il titolo è già una indicazione: Giornalismo culturale – così, senza far tante storie. Nella premessa Berardinelli afferma come, pur nata dalla necessità economica, questa sua attività favorisca una naturale inclinazione per le forme letterarie brevi. Aggiunge, ed è il punto: “molto spesso ho avuto l’impressione di scrivere qualcosa di molto simile a un diario in pubblico, il diario di un lettore che sceglie di leggere quello che più gli serve per dare forma a intuizioni, opinioni e umori del momento”. Come a dire: un luogo dello scrittore-lettore. (Sono tre: il diario letterario, il saggio, la collana editoriale – quest’ultima ormai preclusa, e avversata dagli amministratori delegati-editori). Le forme letterarie brevi come testi a dire “il gusto letterario per la velocità, la varietà, la mescolanza di temi e toni” – che B., non senza civetteria, dice caratteristici di uno dei suoi maggiori difetti: l’impazienza. (Civetteria che raggiunge picchi alti quando dice che a questo si aggiunge la sua “riluttanza o incapacità” di scrivere libri: ha in bibliografia numerosi titoli – niente di cospicuo ma sempre libri). È l’autoritratto a china e di profilo del cronista letterario di rilievo.

Non si può non iniziare dall’articolo Elogio delle dimissioni – Berardinelli è l’unico letterato già accademico che ha titolo per scrivere un pezzo del genere –  scritto a dire l’ammirazione per le dimissioni di Benedetto XVI, al secolo Joseph Ratzinger, “un devoto intellettuale, maestro di ortodossia teologica, eppure dubbioso, papa eppure individuo che pensa alla salvezza della sua anima”. Riporta una inflessibile esortazione di Ratzinger e la sua domanda retorica, che dovrebbe essere la prima di fronte agli accadimenti, piccoli o grandi che siano (“Siamo di fronte a un bivio: vogliamo seguire Dio o l’io?”); e qui chiosa quasi con gioia: “Qui anche Kierkegaard potrebbe applaudire”; ma per poi agganciarsi e arrivare dove voleva, a dire della Germania luterana, “un paese in cui la mistica e la teologia sono diventate filosofia, hanno impregnato e perfino traviato la filosofia facendone un’impropria teologia della storia (Hegel), della politica (Carl Schmitt), della rivoluzione (Ernst Bloch), dell’esistenza (Heidegger)”. Affermazione che dice bene la posizione di Berardinelli, l’ampiezza del territorio dove esercita la critica e l’attenzione ai testi di riflessione. Sono i motivi che rendono preziosi i suoi testi e la sua presenza.

La tersa pochezza dei soi-disant filosofi italiani contemporanei lo irrita oltremodo: Cacciari, Severino, Vattimo – ce n’è per tutti, e come dargli torto. Cacciari è detto “voracissimo mangiatore di ogni problematica finale, fatale e superiore” che “fagocita e trita di tutto, parafrasa (ahimè creativamente) qualunque filosofo abbia letto”, il tutto con una “lingua filosofica patchwork e arcimboldesca” (e quel Cacciari arcimboldesco è un colpo di genio critico e figurativo); Severino viene satireggiato fino all’irrisione, e con lui tutti gli heideggerriani cantori dell’essere; su Vattimo non affonda neppure, non serve: basta citarlo e si autoaffonda nel bucato del pensiero debole, e così negativo. Dopo averli lavorati al corpo (filosofico) porta infine il colpo risolutore, che va al più esposto: “A Cacciari va comunque riconosciuto un primato. Come icona e parodia dell’intelligenza ha raggiunto la perfezione”. Va un po’ meglio all’asceta gauchiste Giorgio Agamben, “il più filologicamente filosofo” del gruppo, pur con tutto il sospetto per la nuova bestia: il teologismo gauchiste, così salonnier. Insomma, B. non trova gran che di utile nella filosofia italiana.

Non va molto meglio con la letteratura – e non poteva essere in altro modo. Intanto Berardinelli è stato tra i primi ad avvertire come la letteratura italiana, la prosa soprattutto, abbia perso il legame con la Tradizione. La forza della sua riflessione viene dall’allargare il tema a quello della identità storica italiana e la idea di realtà.  Tutto nasce da un fatto: la realtà storica e il romanzo sono legati: all’accertamento dei fatti (la Storia) si affianca la narrazione di come quei fatti vengono vissuti: quando c’è rapporto virtuoso c’è “acquisto di idee”, per dirla con uno dei Padri delle nostre Lettere. Il fatto è che questo paradigma della narrazione in prosa è stato per lo più disatteso, e, da trent’anni a questa parte, dal nascere e subito dilagare della “pura narratività”, del tutto ignorato. (Ecco il motivo per cui la nostra letteratura offre pochissimi grandi romanzi e pochi notevoli: non c’è rapporto fecondo con la storia). Utilissimo è allora andare a rileggere i testi di Autoritratto italiano, pubblicato da Donzelli alla fine degli anni Novanta: è uno dei libri migliori di Berardinelli, che sul problema della identità italiana e la letteratura ha riflettuto molto. Pure si possono rintracciare negli articoli raccolti in Giornalismo culturale altri contributi a quello che è il problema più grave della nostra letteratura: Quell’autore è ancora italiano?, Disperate lettere italiane, Faccia a faccia sulla critica, per dirne alcuni.

(Impeccabile l’articolo Il critico come personaggio letterario, intorno alla figura e al pensiero di Giacomo Debenedetti, con Cesare Garboli il più rappresentativo degli scrittori-lettori del secondo Novecento – come del primo lo sono Roberto Longhi e Mario Praz. Berardinelli nello spazio di un pezzo d’occasione fissa i caratteri fondamentali dell’opera del gran saggista, di cui ha curato il Meridiano delle opere. Nell’articolo c’è un punto che per me è decisivo: “L’attività critica era comunque tutt’altro che applicazione [di una teoria letteraria]. Aveva bisogno di una prosa, di uno stile saggistico”. Tutto sta e resta in quel bisogno di una prosa).

Molto ci sarebbe da dire sugli articoli dedicati al singolo scrittore, narratore o poeta:  non è questo il luogo per discuterne, pur se la passione chiama e a gran voce. Preferisco restare sul tema del saggio, dire di un’altra convergenza che è provante e decisiva: la comune ammirazione per il saggio narrativo di Giorgio Ficara, Riviera. La via lungo l’acqua, uno dei migliori libri di prosa italiana degli ultimi vent’anni. Sono le felicità del lettore, queste convergenze. Facili, larghe quelle nate sul rifiuto, più difficili e strette quelle sul riconoscimento: è su quest’ultime che si può costruire. Succede che il riconoscimento di un qualità unica e singolare sia tanto rara da creare sorpresa, oltre la gioia: si conta su questi libri unici, che arrivano inaspettati e offrono spazio alla riflessione, per puntare alla sopravvivenza della prosa italiana. Intanto si legga e si rilegga, si scriva e ci si tenga alla larga dai tinelli e i poggioli. Qualcuno arriverà, prima o poi, a indicare il passaggio a nord-ovest.      

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