Il termine populismo richiama istintivamente alla mente le urla e gli slogan scomposti, alla Matteo Salvini, appunto, dei descamisados, dei marginali, degli esclusi, in breve: della plebe vociante. Ma non è così e oggi più che mai è indispensabile unire alla condanna o alla critica l’analisi, di dati concreti. Guardiamo alla Francia, che non fa mai male, là dove il populismo di destra – Marine Le Pen, Éric Zemmour e Nicolas Dupont-Aignan – col suo 32,28%, sommato a quello di sinistra di Jean Luc Mélenchon col 21,95% ha conquistato un solido 54,23% dell’elettorato.
Bene, anzi male, se andiamo a vedere (sondaggio Ipsos) la composizione sociale di questo voto salta agli occhi un elemento dissonante dall’immagine indistinta e vociante della plebe populista: un impressionante 59% degli operai ha scelto Marine Le Pen (36%) o Jean Luc Mélenchon (23%). Solo il 18% degli operai ha scelto un Emmanuel Macron che pure ha fagocitato buona parte dell’elettorato socialista. Maggioranza netta, ma più risicata del 51% per il bipopulismo tra gli impiegati. Ancora, maggioranza nettissima del 59% per il bipopulismo tra chi guadagna meno di 1.250 euro al mese, un po’ più risicata, del 51% tra chi guadagna tra 1.250 e 2.000 euro al mese.
Dunque, una base sociale del bipopulismo, di destra e di sinistra, saldamente ancorata tra gli strati sociali più deboli, ma perfettamente inseriti nel tessuto produttivo, assolutamente non emarginati, descamisados appunto. Strati sociali produttivi oggi in maggioranza filo-populisti che invece sino alle elezioni francesi del 2017 si riconoscevano nelle due grandi famiglie politico-ideologiche del novecento francese: i socialisti e i gollisti.
Per comprendere meglio questo irrompere della affermazione del populismo francese è utile riandare al referendum sulla Costituzione Europea del 2005. Voto popolare a favore o contro uno dei temi principali su cui si raccoglie consensi il populismo francese: l’Unione europea. Allora, si badi bene, si erano convintamente schierati per il Sì al processo federale dell’Europa i neo gollisti di Chirac e i socialisti di Hollande, che avevano ottenuto complessivamente tre anni prima il 75,8% alle elezioni per il Parlamento. Per il Sì erano schierati anche praticamente tutti i grandi media. Per il No si erano battuti solo Jean Marie Le Pen (11,3%), il comunista Robert Hue (4,8%) e alcuni, ma isolati, ministri di area socialista (Laurent Fabius, Christane Taubira, Jean Luc Mélenchon, Jean Pierre Chevènement).
Nonostante il massiccio schieramento per il Sì da parte della schiacciante maggioranza dell’establishment, il No trionfò con un netto 54,67%. Ma quel che è più interessante è che per il rifiuto dell’Europa, che sarà il nerbo del populismo francese, votò l’impressionante 79% degli operai, il 70% degli agricoltori, il 67% degli impiegati e il 57% dei ceti medi. Per contro, votarono al 65% per il Si i quadri dirigenti.
Tutto questo non per giocare con le percentuali e le statistiche, ma per evidenziare un problema, che è anche di un’Italia nella quale il 40% degli iscritti alla Cgil ha votato per Matteo Salvini o Beppe Grillo. Il problema è quello di una proposta politica della sinistra, il Pd in Italia, come del centro, Macron in Francia, che lascia completamente scoperto, a radicale differenza di quanto avveniva nel secolo scorso, la domanda di rappresentanza di larga parte degli operai, degli impiegati, dei ceti produttivi, di chi guadagna sotto i duemila euro, ecc. Il populismo di destra e di sinistra riempiono questo vuoto.
Diverso, ovviamente, ma non dissimile nei fondamentali, il quadro del successo del populismo in una Polonia e in una Ungheria nelle quali le vittorie elettorali del PiS e di Viktor Orbán si basano sul forte riscontro nella grande provincia e nelle periferie urbane di quei paesi, contrapposte alla minorità di un fronte moderato-progressista limitato al nucleo centrale delle – poche – grandi città. Esemplare, ma poco ricordato, il fatto che Solidarnosc oggi si riconosce in pieno nel governo populista del PiS.
Dunque, qualcosa di ben più complesso della ottima boutade di Michele Serra: «Più abitano in centro, più votano a sinistra».
In realtà si registra la crisi profondissima, all’assenza addirittura, di un riformismo contemporaneo, politico e partecipativo, ma anche economico, ancorato a una base sociale produttiva e ampia. La sensazione, la certezza di non essere rappresentati nel governo della nazione coinvolge oggi non solo gli emarginati, ma proprio i ceti produttivi, gli operai, gli impiegati, le piccole partite Iva e, in Italia, gli stessi piccoli imprenditori. Questo, a fronte di una sovra-rappresentanza politica di ceti improduttivi e soprattutto delle imperiose esigenze di un finanza che cresce su sé stessa e determina le scelte dei governi.
Questo è il tallone di Achille dello stesso Emmanuel Macron, somaticamente e dal linguaggio del corpo inguaribilmente un Grand Commis de l’État, così ben definito da Jerome Fenoglio, direttore di Le Monde: «Non ha attivato meccanismi di partecipazione, non ha modernizzato la società, come era riuscito al suo modello, Giscard d’Estaing. E non ha fatto le riforme necessarie al sistema politico; per cui il Parlamento non conta più nulla. Cosa più grave, il cittadino ha la sensazione di non contare più nulla».