Tutti dormono nella valleIl rito antico e proibito della distillazione della grappa

Nell’ultimo romanzo di Ginevra Lamberti (pubblicato da Marsilio) viene raccontato, attraverso le vicende dei protagonisti, l’arrivo della modernità in un paese di montagna, in cui abitudini vecchie devono convivere con usi nuovi e si aprono strade mai viste, che comportano scelte inusitate

Peter Secan

A fare la grappa erano soprattutto le donne, Augusta e le sorelle, le zie, le vicine. Si ritiravano dietro la casa gialla, all’ingresso della cantina dove riposano le botti di vino e stanno appesi gli insaccati. Poiché la cantina è concepita come una grotta, lunga e buia ma priva di porte, al suo ingresso sistemavano da parte a parte un cavo di ferro su cui appendere una vecchia coperta militare.

Doveva, nei propositi, servire da tenda per non far uscire gli effluvi. Per distillare la grappa è necessario fare le cotte, ovvero riempire di vinaccia un grande mastello di rame e chiuderlo con un coperchio, da sigillare con acqua e farina sparsa sul bordo appena prima di accendere il fuoco. Il coperchio ha un buco al centro in cui vengono infilati un contenitore cilindrico e una serpentina che finisce in un recipiente di acqua fredda. La spremitura dell’uva lascia molto liquido nella vinaccia, che la maggior parte degli abitanti del villaggio trattava con il torchio, in una indefessa ricerca di non-spreco. Dalla vinaccia già spremuta spremeva altro vino, chiamato non a caso vin dal torcio.

Tiziano non possedeva un torchio e si limitava a tenere una vinaccia piuttosto liquida, senza fare troppe storie. Ma, prima che tutto ciò avvenisse, questa andava messa dentro un tino e pestata bene perché trattenesse meno aria possibile. Poi veniva coperta e lasciata fermentare fino al formarsi di una ricca muffa. Era solo in pieno inverno che la si tirava fuori e la si sistemava nell’alambicco affinché compisse la sua ultima trasformazione. Dall’ebollizione si creava un vapore alcolico che attraversava la serpentina fino a raffreddarsi, tornare liquido e infine gocciolare fuori da un piccolo rubinetto. Per avere certezze in merito alla qualità del prodotto era necessario assaggiare.

È risaputo che la prima e l’ultima grappa non sono buone. Quella buona sta nel mezzo, ma determinare cosa sia il mezzo, quando inizi e quando finisca, è cosa che passa per una valutazione empirica. In quel preciso periodo dell’anno era dunque usuale che tutti gli abitanti della valle diventassero all’improvviso grandi esperti in distillati.

I vapori intanto si spandevano per due giorni, notte compresa: il ciclo non si poteva interrompere e andava portato a termine il prima possibile. Finita una cotta bisognava attendere che si freddasse almeno un poco, poi smontare l’alambicco, aprire il pentolone, estrarre le rimanenze di vinaccia bollente, sistemarla in pesanti vasi di coccio e trasportare il carico nel campo, dove Tiziano già aveva scavato una buca per seppellire quella materia e far sì che diventasse, poi, terra buonissima.

Nel mentre il borgo era soffuso di fumi alcolici, e tutti i vicini erano intenti nel medesimo rito nel medesimo momento. Quando uno iniziava l’altro capiva che era tempo e così poi gli altri e gli altri ancora. Le bottiglie che ne risultavano tornavano utili per essere regalate, oltre che bevute. C’era addirittura chi le vendeva in centro, perché la cosiddetta graspa da troj era molto ricercata dai cittadini, oltre che assolutamente illegale. Ma nascondersi era più un gioco che una necessità, e la facevano tutti. La facevano i Lazzarin – bravissime persone – così come i De Martini. La facevano Lina e Pino. La facevano perfino gli abitanti del Colle Monco, il borgo incastrato tra la valle più profonda, dove cresceva Costanza, e quella di superficie, dove cresceva Livia, che a quel tempo era ancora una bambina sconosciuta, lontana ben quattro chilometri.

Alla fine del rito Costanza si aggirava tra le bottiglie del padre con il preciso intento di spaventarsi da sola. Lui non le vendeva, al massimo le portava in dono. Alcune erano piene solo di trasparenze, altre aromatizzate con radici di liquirizia, le più temibili intrappolavano i rami di ruta che Tiziano coltivava appositamente per quel proposito. A Costanza, dentro il liquido, sembravano piccole creature legnose che spingevano per venire a prenderla.

da “Tutti dormono nella valle”, di Ginevra Lamberti, Marsilio, 2022, pagine 224, pagine 17

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter