L’offensiva russa nel Donbass, prevista nei prossimi giorni dallo Stato Maggiore ucraino, rappresenterà il vero punto di svolta della guerra in Ucraina. Il fallimento o il successo dell’assalto non deciderà tanto il vincitore della guerra – ammesso che esista un vincitore, di fronte alle immense perdite e alla catastrofe umanitaria in corso – quanto la lunghezza del conflitto.
Cosa succederebbe infatti se l’offensiva dovesse ridursi a un ulteriore, sanguinoso stallo? Alcuni analisti hanno prospettato la trasformazione di questa guerra di mobilità in un conflitto di logoramento, come quello che ha caratterizzato gli scontri fra le forze di Kiev e i separatisti negli ultimi otto anni.
A quel punto, il risultato diplomatico più prossimo sarebbe la mutazione della guerra in un frozen conflict, uno dei tanti “conflitti congelati” disseminati nello spazio post-sovietico.
Queste situazioni “né di guerra né di pace”, nelle quali i combattimenti sono fermi a causa di semplici cessate il fuoco, hanno per decenni impedito una vera risoluzione politica di numerosi conflitti etnici (e non) nel vicinato russo, avendo come riscontro positivo un’oggettiva riduzione dei morti.
Fermare la mattanza, far lavorare la diplomazia e partecipare a negoziati potenzialmente infiniti nei quali, senza la pressione di un conflitto ad alta intensità, nessuna delle parti si sentirebbe costretta a rinunciare ai propri principi politici: non sorprenderebbe se, anche in Occidente, molti leader politici e commentatori accogliessero con sollievo questo modus vivendi. Secondo alcune definizioni, questa era proprio la situazione in cui versavano i rapporti fra Ucraina, Russia e Nato fra il 2014 e il 2022: mentre sulla linea di contatto fra lealisti e le repubbliche separatiste avvenivano scaramucce, le grandi potenze hanno cercato di avanzare l’agenda di Minsk 2, andando a cozzare ripetutamente su disaccordi diplomatici noti.
Intanto, Europa e Russia hanno continuato a commerciare e convivere come se niente fosse, ignorando intenzionalmente la degenerazione del regime di Mosca.
Indubbiamente, questo scenario sembra allettante rispetto agli altri scenari accessibili al Cremlino. Se l’offensiva dovesse fallire, ed escludendo arbitrariamente il potenziale uso di armi strategiche o nucleari, allora congelare il conflitto rappresenterebbe un modo per tamponare e perdite senza ammettere la sconfitta. Allo stesso tempo, anche una possibile vittoria potrebbe indurre il Cremlino a mantenere i propri obiettivi massimalisti e mirare al resto dell’Ucraina.
L’arrivo di nuove armi occidentali a Kiev suggerirebbe la necessità di agire il più in fretta possibile e impedire che le forze armate ucraine diventino un avversario ancora più formidabile. Detto questo, è altamente improbabile che le forze russe avranno la forza per continuare l’offensiva oltre il Dnepr senza una pausa prolungata per rifornirsi e riorganizzarsi. In questa prospettiva, una situazione “né di guerra né di pace” rappresenterebbe il meglio di entrambe le opzioni: uno stop ai combattimenti ad alta intensità che mantenga la pressione militare sull’Ucraina.
Forse è grottesco pensare alle motivazioni russe per un frozen conflict proprio in queste ore, in cui il conflitto è tutt’altro che congelato e la caduta di Mariupol è prossima. Rimane tuttavia un esercizio fondamentale: le difficili negoziazioni fra Ucraina e Russia e l’alto tasso di perdite rendono questa prospettiva verosimile, oltre che allettante per quei decisori in Occidente che vorrebbero lavarsi le mani della guerra senza investire capitale politico nella sua risoluzione e nel rafforzamento del governo di Kiev. Accettare questa prospettiva sarebbe pericoloso per due motivi, uno legato all’insostenibilità del conflitto e l’altro al vantaggio che i russi potrebbero trarre dalla situazione.
In primo luogo, parlare di frozen conflict è, sotto certi punti di vista, un termine improprio. Suggerisce che l’interruzione di operazioni su larga scala equivalga anche a uno stop alle vittime civili e militari, oltre che a una fine del conflitto a cui manca solamente una conferma formale. In questo caso è errato: guardando al Donbass, ad esempio, le autorità ucraine stimano che tra il 2014 e il maggio 2021 il conflitto abbia ucciso circa 13mila persone. Più a est, le cicliche fiammate di violenza in Nagorno-Karabakh dimostrano che senza una risoluzione politica le guerre “congelate” tendono a diventare ancora più complesse, intrattabili, e a propagarsi.
In secondo luogo, proprio la tendenza di questi conflitti a scongelarsi all’improvviso può essere sfruttata politicamente dai russi. La dottrina militare russa non ha principi specifici riguardo i frozen conflict, considerandoli piuttosto una continuazione delle ostilità con altri mezzi e un modo per alternare misure militari e politiche.
Effettivamente, fra il 2014 e il 2022 Mosca ha imposto la situazione di stallo come deterrenza asimmetrica nei confronti di Kiev, sfruttando l’ambiguità politica e legale del conflitto per impedire una maggiore integrazione dell’Ucraina a Occidente senza però interrompere i rapporti con l’Unione europea.
La minaccia costante di poter riaccendere il conflitto, concretizzatasi a fine febbraio, è un modo con cui il Cremlino può imporre concessioni alla Nato durante i negoziati diplomatici, minimizzando i propri costi politici e monetizzando così la propria superiorità militare sul campo.
Paradossalmente, come spesso accade nella politica militare russa, questo modo di agire deriva proprio da una lettura distorta delle intenzioni americane, a cui Mosca crede di dover rispondere simmetricamente.
Come riporta Voennaja Mysl (Pensiero militare, la principale rivista scientifica dell’esercito russo): «In Ucraina è vantaggioso per gli Stati Uniti mantenere un frozen conflict, nel Donbass per rafforzare costantemente le proprio posizioni lungo il perimetro dei confini sud-occidentali della Russia». A tal scopo «vengono condotti conflitti ibridi sotto lo slogan “niente guerra, niente pace” (ad esempio in Ucraina con il rafforzamento sistematico della sua potenza militare da parte dei Paesi della Nato), aspettando il momento giusto per passare all’escalation».
È evidente che nel pensiero militare russo un frozen conflict è sempre e solo una situazione provvisoria. Ritornare a uno stato di intimidazione latente sarebbe insostenibile; ancora più pericoloso sarebbe accettare l’offerta di Mosca di fissare una situazione di superiorità relativa sul campo e dare al Cremlino il privilegio di decidere quando e come riprendere il conflitto.