Quando un Paese comincia a declinare dal punto di vista demografico, a perdere popolazione, si tratta di un cambiamento solo quantitativo o anche qualitativo? Vi è una trasformazione della società? E quali aspetti di tale società vengono impattati?
Sono domande che sorgono spontanee quando si è di fronte, come ora, a un fenomeno ormai sempre più strutturale come il calo del numero degli abitanti del nostro Paese. I numeri del 2021 seguono il trend previsto, dopo il dato eccezionale del 2020. La ripresa di un flebilissimo tasso migratorio, un ingresso ogni mille persone, non compensa il -5,2, sempre per mille, del saldo naturale.
È dal 2014 che l’effetto del calo delle nascite supera quello dell’immigrazione, e per questo il 2021 è stato l’ottavo anno consecutivo con il segno meno davanti al tasso di crescita complessivo. Sarebbe stato così anche senza il calo record dei parti dovuto alla pandemia.
Dati Istat
Che non si tratti solo di aritmetica è immediatamente chiaro quando si osserva lo sviluppo di questo trend nelle diverse macro-aree italiane.
Il Mezzogiorno era l’unica zona del Paese in cui fino a 10 anni fa le nascite superavano le morti, a differenza che nel Centro-Nord. Oggi è l’area in cui il tasso di crescita (ormai decrescita) naturale è peggiorato di più nel tempo (di 6,3 punti per mille persone in quasi 20 anni) arrivando al livello del Nord Est.
E considerando che lì il tasso migratorio è il più negativo, è proprio nel Sud e nelle Isole che il declino demografico si fa maggiormente sentire, ovvero nell’angolo economicamente più fragile del Paese.
Dati Istat
È questa fragilità economica a provocare tale calo della popolazione o, viceversa, è quest’ultimo a mantenere più povere queste regioni? Chiaramente vi è un circolo vizioso in atto: i redditi bassi non attirano immigrazione, e anzi provocano la partenza dei giovani più istruiti verso il Nord e l’estero, e questo peggiora ulteriormente le dinamiche demografiche.È una dimostrazione del fatto, comunque, che questo tipo di declino è strettamente legato a quello economico.
I tassi di variazione della popolazione peggiori nel 2021 si sono riscontrati proprio nelle aree più marginali del Mezzogiorno, nella zona appenninica, in Sardegna, in Sicilia. Al Nord i cali sono stati meno marcati, e da qualche parte, per esempio l’Alto Adige, si è visto il segno più. Questo vuol dire che nei prossimi anni sarà destinata a cambiare anche la mappa dell’età media. Se già ora milanesi, bergamaschi, bresciani e naturalmente altoatesini sono più giovani dei sardi, dei brindisini, dei cosentini, degli irpini, tutti mediamente over 46, in futuro sarà sempre più normale osservare i meridionali invecchiare più velocemente degli altri italiani.
Dati Istat
Sono però solo economiche le conseguenze di questo cambiamento in atto? Si tratta solo di accelerare il declino delle aree già fragili e di rendere più difficile un vero welfare state e il pagamento delle pensioni a un numero sempre più ampio di anziani?
C’è il fondato sospetto, in realtà, che un Paese sempre più vecchio possa cambiare anche politicamente. Quando l’indice di vecchiaia, ovvero il rapporto tra il numero di over 64 e quello di under 15, passa in quasi 20 anni da 131,7 a 182,6 (+38,6%), vuol dire che a influire sulle decisioni di un Paese sono persone diverse, in una differente fase della vita.
Dati Istat
Ovvero in quella fase in cui si tende a privilegiare lo status quo, la conservazione di piccoli e grandi privilegi, di sicurezze o presunte tali, in cui non vi è ormai traccia di quella visione, a volte avventata, a volte idealista, che caratterizza la giovinezza.
Non si tratta solo di essere a favore del cambiamento, di capire quanto sia importante “fare le riforme”, ma anche di avere il coraggio di schierarsi in modo netto a favore di idee di libertà, anche quando questo può costare sacrifici.
La riluttanza di tanti italiani nel capire che tipo di battaglia si sta consumando in Ucraina, tra un regime autocratico che aggredisce e una democrazia che si difende, sembra esemplare. Si dirà: c’entra l’ideologia, non solo il quieto vivere e il timore degli impatti economici delle sanzioni e dell’embargo alla Russia. Ma proprio l’ideologia, rosso-bruna, di destra o sinistra, più banalmente sovranista, è strettamente collegata all’età e al declino economico.
Molteplici indagini lo rivelano: sono gli over 40 e gli over 50 che più di tutti amano crogiolarsi nel mito di un’Italia un tempo prospera e ora non più “sovrana”, oppressa dal globalismo liberal-capitalista, e che quindi parteggiano per chiunque condivida gli stessi nemici, in primis la Russia di Putin. E chi, più di una popolazione più vecchia perché impoverita, e impoverita anche perché più vecchia, sa inventarsi un passato tanto inesistente quanto affascinante, frutto di una distorsione dei ricordi, in cui si stava meglio e l’Italia “si faceva rispettare”?
Così la rievocazione della notte di Sigonella si unisce alla nostalgia per gli anni ’80, all’ostilità verso gli Usa, la Ue, l’Occidente. Il desiderio di tornare indietro diventa quello che oggi perlomeno nulla cambi, al di là degli slogan di cambiamento, il desiderio che la guerra in Ucraina non smuova dalle comode certezze su cosa è giusto cosa è sbagliato, appunto l’Occidente, l’euro, Bruxelles.
Il fatto che siano stati gli elettori delle aree del Paese in più rapido invecchiamento e più veloce declino economico a premiare negli ultimi anni i partiti più populisti e sovranisti, dal Sud alle più interne del Centro, non sembra un caso.
Chiedere di rinunciare un po’ all’aria condizionata o di fare un qualsiasi sacrificio ai sempre più 50-60enni che si sentono già vittime del sistema, non è come chiederlo a chi ha il futuro davanti. E rischia di essere una missione impossibile.