Senza cusciniIl Maurizio Costanzo show e il tentativo impossibile di spiegarlo ai nativi digitali

C’è stato un tempo in cui era l’unico talk della televisione italiana, dove passavano sia i freak sia i grandi della cultura, dove ogni tanto nasceva qualche talento e i mitomani e i velleitari apparivano come tali

Stefano Colarieti / LaPresse

Una cosa difficile (impossibile) da spiegare ai nativi dei palinsesti a costo zero è che una volta c’era solo il Maurizio Costanzo Show. La tv non era un gigantesco talk-show indifferenziato, qualunque tasto del telecomando spingessi. E, quel che più conta, Maria De Filippi era la moglie di Maurizio Costanzo, mica viceversa.

(Vent’anni fa, se eravate vivi ve lo ricordate, Gianni Morandi apparve in mutande su Rai 1. In quel periodo conduceva il varietà del sabato sera, concorrente del C’è posta per te di Maria De Filippi, e mostrarsi in mutande era una trovata che polemizzava sugli espedienti per alzare lo share. Repubblica organizzò un forum sul tema dell’Auditel, dal quale ricopio questo sublime scambio. Morandi: «È chiaro che se voi finite a mezzanotte e mezza, è meglio che finisca anch’io a mezzanotte e mezza, magari a mezzanotte e 35»; Costanzo: «Io vorrei finire alle 10 e 20, figurati»; Morandi: «Se vogliamo metterci d’accordo, facciamo»; Costanzo: «Parlane con mia moglie, non lo faccio io»).

A settembre il Maurizio Costanzo Show compie quarant’anni. Se leggete i giornali, penserete l’anniversario caschi ora: è adesso che Costanzo ha fatto la sua puntata celebrativa, è adesso che i giornali l’hanno intervistato. È una delle cose che sono cambiate da allora. In tv ci sono alcuni milioni di talk-show (più talk-show che spettatori); con gli ascolti con cui allora un programma si chiudeva, adesso lo si considera un trionfo; l’identità sessuale è diventata un tema di dibattito assai più prescrittivo della guerra; e abbiamo così paura che qualcuno festeggi un anniversario prima di noi che arriviamo in anticipo di mesi.

Alla prima puntata, nel settembre dell’82, c’erano Paola Borboni, Paolo Villaggio, ed Eva Robin’s. Per gli altri due vale quel che ha detto Costanzo l’altro giorno a Repubblica: «Ho avuto Mastroianni, Tognazzi, Vitti, Sordi, Gassman, Villaggio: cosa vado cercando? Certo che non ce ne sono più come loro». Niente racconta il declino delle élite come il fatto che una volta da un talk-show uscissero sì i freak, ma anche i pochissimi grandi talenti di questo secolo (Valerio Mastandrea cominciò come ospite di Costanzo) e i giganti del Novecento: ve lo vedete, uno dei mille talk di oggi, che lascia tutto quello spazio a Carmelo Bene? L’idea dei covi di freak di oggi di utilizzo degli intellettuali è prendere uno scrittore e fargli mettere un cuscino sotto al maglione per esprimere la sua empatia con le donne incinte.

Eva Robin’s, invece, è il mio argomento preferito quando si parla di identità sessuali: io sono di Bologna, noi avevamo Eva Robin’s quando voi ancora stavate sugli alberi. Nel pezzettino della puntata dell’82 che Costanzo ha ritrasmesso l’altra sera, e in cui doveva spiegare che il corpo della signora era femminile di sopra e maschile di sotto, e altre indicazioni per principianti che a rivederle dopo quarant’anni, dieci dei quali passati a sfinirci su questi temi, fanno assai tenerezza, in quel pezzetto Eva diceva «se vogliamo essere sinceri, della donna ho preso solo le cose che mi facevano comodo», che è la frase più libera che abbia mai sentito sul tema dell’identità sessuale, ed è una frase per cui oggi verresti linciata dalle militanti dei cancelletti. Di fianco a lei l’altra sera c’era Drusilla Foer, ed era la rappresentazione plastica di come la tv di quarant’anni fa fosse assai più moderna di quella di oggi.

Quando avevo vent’anni, la mia più cara amica faceva l’attrice. Una sera la invitarono al Costanzo Show, ed è difficile spiegare, in questo secolo di frammentazione del pubblico e moltiplicazione delle nicchie, cosa significasse per un’aspirante qualcosa comparire al Costanzo Show. Il giorno dopo, raccontava la mia amica, il panettiere che non l’aveva mai salutata in tutti gli anni in cui aveva comprato il pane da lui, le aveva detto con gli occhi sgranati «Signorina, l’ho vista in tv». L’esempio non rende, giacché ancora oggi c’è una distorsione percettiva per cui, in qualunque programma tu compaia, il giorno dopo ti sembra tutti l’abbiano visto. Solo che oggi vai a guardare i dati e quelli che ti sembrano «tutti» sono in realtà poche centinaia di migliaia di persone; nel Novecento i mass media erano davvero di massa.

C’è una scena, in “Caterina va in città”, in cui il mitomane interpretato da Sergio Castellitto, un professore di liceo con velleità da romanziere, porta la classe al Costanzo Show. È la sua occasione per la gloria in un tempo in cui d’occasione ce n’era a malapena una (è un film del 2003, non esistevano i social). Chiede la parola dalla platea, si lamenta degli editori che non gli rispondono. È una scena che risulta vera a chiunque fosse vivo all’epoca, a chiunque abbia visto la disperazione dei mitomani prima ch’essa venisse sedata dai cuoricini, prima che ogni mitomane potesse aprirsi un Instagram, o prima che per ogni mitomane ci fosse un talk-show che non si limitasse a dargli dieci secondi il microfono in platea, ma che lo facesse ospite fisso.

D’altra parte, qual è l’alternativa: ce l’avete, voialtri, un Carmelo Bene da mettere in onda al posto di velleitari coi cuscini sotto al maglione? E, possibilmente, che venga in cambio di due buoni taxi: la tv fatta coi soldi è un relitto del Novecento come neanche il juke-box della Fondazione Prada.