Il primo ministro ungherese, Viktor Orbán, ha avuto ieri a Roma diversi incontri importanti: dopo l’udienza del mattino da papa Francesco, nel pomeriggio ha visto anche il suo più gagliardo sostenitore (suo di Orbán, del quale è un seguace della prima ora, s’intende, ma volendo anche suo del papa, del quale è un ammiratore, diciamo così, più recente). Sto parlando, ovviamente, di Matteo Salvini.
Nei giorni scorsi Jan-Werner Müller ha scritto su Foreign Affairs un articolo esauriente e circostanziato sulle ragioni per cui l’Europa dovrebbe preoccuparsi moltissimo per quanto il leader di Fidesz sta facendo, da anni, in Ungheria, minando lo stato di diritto, l’equilibrio e la separazione dei poteri. Ma ancora di più dovremmo preoccuparcene noi italiani.
Müller denuncia giustamente l’interessata acquiescenza dell’Unione, al di là di qualche dichiarazione di facciata e di qualche piccola contravvenzione (ricorda niente?), e in particolare l’ignavia della Germania, che ha stabilito con l’Ungheria una relazione simile, su scala ridotta, a quella che ha con la Russia di Putin (ma guarda un po’).
Se però l’Europa ha motivo di preoccuparsi, in particolare alla vigilia delle presidenziali francesi (incrociamo le dita), quanto dovremmo essere allarmati noi, qui in Italia, dove i principali leader del centrodestra sono impegnati un giorno sì e l’altro pure a omaggiare, difendere e dichiarare apertamente di ispirarsi a Orbán, il teorico della «democrazia illiberale»?
Forse dovremmo dunque guardare un po’ più da vicino questo modello, che tanto piace non solo a Salvini, ma a quella stessa Giorgia Meloni che oggi in tanti rivalutano quale baluardo dell’occidente (fondamentalmente perché, a differenza di Salvini, ha condannato le atrocità di Bucha, che poi potrebbe essere anche una delle ragioni per cui il piccolo Putin ungherese a Roma ha voluto incontrare solo il leader della Lega).
Consapevole della totale inutilità di una simile precisazione in un paese in cui si considera autorevole chi sostiene in tv di ricevere messaggi dalle famiglie di Mariupol, intente a guardare i nostri talk show dai rifugi sotterranei, premetto che Jan-Werner Müller è un filosofo della politica, tra i più quotati studiosi della democrazia e del fenomeno populista a livello mondiale, e che anche Foreign Affairs, come rivista, non è da buttar via.
La tesi centrale dell’articolo è semplice: le elezioni ungheresi, le prime consultazioni importanti in Europa dall’inizio della guerra in Ucraina, con la quarta vittoria consecutiva di Orbán, dimostrano che un’autocrazia può prosperare a lungo. E può farlo persino nel cuore dell’Ue, nonostante – o forse proprio grazie a – gli strettissimi rapporti con Putin, anche finanziari, e la creazione di quello che il sociologo ungherese Balint Magyar chiama un «Mafia state», dove il problema non è cioè la semplice corruzione, quanto l’utilizzo degli apparati dello Stato per la manipolazione di procedure apparentemente legali: in particolare, ad esempio, gare d’appalto cui, stranamente, si presenta una sola impresa. Lo Stato come un’immensa mucca da mungere a beneficio di oligarchi locali e alleati internazionali. Senza contare che spesso, per giunta, buona parte del latte viene dai fondi europei. Come è stato possibile tutto questo?
«Gli osservatori internazionali – scrive Müller – si sono concentrati sulle diverse campagne del governo contro rifugiati, George Soros, l’Unione europea, e da ultimo la comunità lgbtq. (…) Ma al di là di queste strategie, che sono abbastanza facili da copiare per altri aspiranti autocrati, c’è il più complesso quadro di come Orbán, un avvocato di formazione che si circonda di giuristi navigati, sia riuscito a tenere in piedi una facciata di perfetta legalità, e persino di legittimità, per il suo potere».
E qui gli italiani in ascolto, specialmente a sinistra, specialissimamente se dirigenti o magari segretari del Partito democratico, dovrebbero aprire bene le orecchie. L’aspetto più interessante dell’analisi, per noi, sta infatti proprio qui, e non riguarda tanto i diversi modi, già denunciati più volte dalla stampa internazionale, con cui Orbán è riuscito a liberarsi dei giudici sgraditi e a nominare i loro successori, controllare la stragrande maggioranza dei mezzi di comunicazione pubblici e privati, modificare le circoscrizioni e le leggi elettorali a suo favore (è stato calcolato che per battere i suoi candidati sia necessario un vantaggio non inferiore al 5%). E non si esaurisce nemmeno nell’astuzia di lavorare, come si vede, sul confine di quegli abusi che, in una certa misura, caratterizzano ogni democrazia (perché tutto dipende, appunto, dalla misura: fin dove si tratta di scorrettezze reciproche tra forze concorrenti che più o meno si compensano, o comunque non alterano la natura del sistema, e dove finiscono invece per trasformarlo in qualcosa di completamente diverso).
L’aspetto davvero interessante – per noi italiani – è il punto di partenza di questo processo. E cioè un sistema elettorale che ha garantito a Orbán una «supermaggioranza» tale da permettergli di cambiare la costituzione a suo piacimento. Da quel momento in poi, per il primo ministro ungherese e per il suo partito, Fidesz, è stata tutta discesa: «Se un tribunale boccia una legge di Fidesz (cosa ora molto improbabile, visto che i tribunali sono controllati da giudici di Fidesz), la legge può semplicemente essere inserita nella costituzione. Se sei tu a fare le leggi, praticamente nulla di ciò che decidi di fare può essere illegale».
Qui Müller cita il sociologo Kim Lane Scheppele e due sue memorabili definizioni: «legalitarismo autocratico», in cui norme e procedure non sono apertamente violate, «semplicemente il loro spirito muore di morte lenta», e «Frankenstate», uno Stato in cui a prima vista ogni cosa sembra essere al posto giusto, proprio come il mostro del romanzo era fatto di tante normali parti del corpo umano, prese singolarmente. Una volta messi insieme i pezzi, però, si tratta semplicemente della «fine della democrazia».
Non credo ci sia bisogno di aggiungere altro. Se qualcuno ha modo di segnalare l’articolo di Foreign Affairs a Enrico Letta, forse siamo ancora in tempo per evitare di imboccare la stessa strada. Ma non dite che ve l’ho suggerito io.