I cavillosi complici di PutinDavanti all’orrore, anche la normale ipocrisia delle nostre discussioni è divenuta impossibile

C’è un abisso che separa il dibattito pubblico su quanto sta accadendo in Ucraina da tutte le discussioni precedenti, anche le più grottesche. Una differenza che avrà conseguenze personali e politiche per ciascuno di noi

Possessed Photography

Il dibattito pubblico in Italia assomiglia da molti anni a una partita truccata tra ubriachi. Siamo sinceri, non è una novità: non è colpa della guerra e nemmeno dei social network. E ovviamente ci sono luminose eccezioni. Buona parte delle discussioni che si possono seguire in televisione o sui giornali, tuttavia, è riassumibile nella formula: un truffatore che dà dell’imbroglione a un baro.

Un conto però è quando l’oggetto della contesa, faccio un esempio a caso, è la legge elettorale, e l’imbroglio si riduce al solito gioco delle tre carte con cui di volta in volta il favorito nei sondaggi si batte in difesa del maggioritario, salvo poi invocare il proporzionale nel momento in cui gli equilibri si rovesciano (spesso anche a causa della legge elettorale da lui difesa al giro precedente, perché i nostri bari hanno almeno questo di rassicurante: che non sanno neanche barare).

Altro discorso è quando l’oggetto della contesa riguarda l’invasione di un Paese libero e democratico – quando cioè il dibattito si svolge mentre sono in corso stermini, torture, stupri di massa – e il baro di cui sopra va in tv ad accusare chi vorrebbe fermare tutto questo di non volere la pace e mettere a rischio il dialogo con i torturatori.

C’è un salto di qualità, ma soprattutto c’è un abisso morale che separa le discussioni sulla guerra in Ucraina da tutte le precedenti, per quanto grottesche potessero essere pure quelle. È questo salto che rende difficile, almeno per me, ma forse non soltanto per me, continuare a osservare e commentare un tale spettacolo.

È un salto che costringe ciascuno di noi a fare i conti con la propria coscienza, con le proprie idee passate e presenti, con i propri punti di riferimento politici e intellettuali, con i propri amici, conoscenti, follower.

Ammesso che sia sensato indicare una data, io non so quando si possa dire che si è diventati di destra o di sinistra, nazionalisti, pacifisti, conservatori o progressisti – se a dieci anni, a quindici o a ventidue – ma penso che non bisognerebbe mai dimenticare, per dir così, la direzione del nesso causale.

Se a un certo punto della vostra vita avete pensato che eravate di sinistra, per esempio, posso immaginare che a muovervi sia stato un certo desiderio di giustizia, o un sentimento di indignazione per le ingiustizie subite, da voi stessi o da altri: classi sociali, minoranze religiose, popoli oppressi. Ma quali che siano state da allora in poi le vostre letture, studi, relazioni e scelte di vita, la direzione del nesso causale non dovrebbe essere cambiata: avrete eventualmente cominciato a leggere Marx perché volevate combattere quelle ingiustizie, non viceversa. Dubito che dall’Ottocento a oggi ci sia stata una sola persona che, dopo essere giunta all’ultima pagina del Capitale, ne abbia tratto la conclusione che era ingiusto far lavorare i bambini in fabbrica. Mi sembra più verosimile l’inverso. Così non penso ci sia un solo antifascista che abbia tratto dai libri l’idea che lo sterminio degli ebrei sia stato un orrore, mentre trovo assai verosimile che tanti siano diventati antifascisti dopo avere visto l’orrore dell’Olocausto.

Se dunque, oggi, davanti alle atrocità di Bucha e di tante altre città ucraine, le tue letture e le tue scelte passate non ti portano a domandarti cosa possiamo fare per fermare tutto questo, ma a fare le pulci alle vittime, a sindacare ogni loro reazione o dichiarazione, a discutere persino le scelte di comunicazione con cui denunciano l’orrore che stanno subendo, mi pare evidente che abbiamo un problema. Un problema che riguarda anche il nesso causale da cui eravamo partiti.

Detto in altri termini: se le atrocità di cui siamo testimoni ogni giorno entrano in conflitto con le tue idee politiche o geopolitiche, con i tuoi passati giudizi su Putin e sulla Russia, sulla Nato e sugli Stati Uniti, forse dovresti rivedere quei giudizi, non negare l’evidenza.

Altrimenti temo che siamo noialtri a dover accettare l’evidenza del fatto che hai cambiato campo. E qui non stiamo parlando più di destra o sinistra, dell’essere filo-americani o anti-americani, ma di qualcosa di molto più basilare. È il motivo per cui si chiamano principi: perché vengono prima.

Forse però l’emergere di questo grande equivoco è pure necessario, non solo a ciascuno di noi singolarmente, per capire davvero chi sono le persone che credevamo di conoscere, ma alla collettività. Forse uno degli esiti di questa terribile prova sarà anche una complicata e dolorosa opera di riconsiderazione di tante posizioni, storie, leadership politiche e intellettuali. In fondo, è quello che la guerra ha sempre fatto, segnando nuove discriminanti e nuove identità, in politica, nel giornalismo, nella cultura, ed è inevitabile che accada anche stavolta.

X