Il motivo per cui a un onesto esponente della sinistra del Partito democratico sia stato, da più governi, affidata e confermata la delega al lavoro è spiegabile soltanto con la vetusta tradizione che il ministro del Lavoro «sta da una parte sola: quella dei lavoratori». E la parte dei lavoratori si misura, evidentemente, in quantità di gradi a sinistra del centro.
Al ministro Andrea Orlando va imputata soprattutto la mancata elaborazione di un progetto innovativo e concreto di politiche del lavoro, da finanziare con le risorse del Recovery Plan: a tutt’oggi i provvedimenti disegnati (Garanzia di occupabilità dei lavoratori e Fondo nuove competenze) sono vuoti di prospettive, non indicano alcuna novità strategica od operativa, ripropongono l’offerta burocratica di servizi pubblici notoriamente inutili ma con maggior spesa di risorse. Ogni nuova richiesta sindacale di rifinanziare le politiche passive ha la precedenza, e le uniche assunzioni attribuibili all’impegno pubblico paiono essere quelle dei “navigator”: la sola occupazione creata dai governi populisti.
Ma la dipendenza del ministro Orlando da un approccio sospettoso verso l’impresa e da una reverenziale adesione alle posizioni del sindacato, soprattutto della Cgil, si manifesta in genere ogniqualvolta si occupa di mercato del lavoro. L’ultimissima è un attacco frontale (più volte sollecitato dal sindacato) alla pratica dei tirocini. Che peraltro prende le mosse da un aspetto finora sconosciuto alle normali risse sui rapporti di lavoro, cioè i tirocini curriculari, quelli cioè che inseriti in un percorso formativo (di solito universitario) generano crediti per il curriculum dello studente.
All’interno di un più compiuto ragionamento sull’istituto del tirocinio, il ministro vuole premiare e incoraggiare appunto quello curriculare, e decide di incentivarlo, guarda un po’, coi soldi delle aziende, che saranno tenute a versare agli stagisti un “rimborso” di 350 euro mensili. Trattandosi di uno step inserito in un percorso didattico della formazione pubblica, pare strano che richieda un pagamento addizionale alle tasse universitarie. E ancor più che i costi vengano scaricati sull’impresa ospitante, che già si fa carico appunto di ospitare il tirocinante senza alcuna contropartita. Difficile capire se si tratti di una decisione ispirata a una mai sopita aspirazione punitiva sottotraccia nei confronti delle imprese, o peggio ancora a una intima convinzione che tanto le aziende, alla faccia di tutti i protocolli, i tirocinanti li sfruttino per il lavoro ordinario, e allora almeno paghino.
Più preoccupante è il resto del ragionamento sui tirocini extracurriculari, cioè quelli aperti a tutti senza collegamento obbligatorio con un percorso scolastico, che possono durare, se prorogati, fino ad un massimo di 12 mesi, e prevedono un rimborso al tirocinante stabilito a livello regionale (in Lombardia, per esempio, siamo a 500 euro al mese).
Come illustrato dal ministro nell’audizione presso la Commissione Lavoro del Senato il 4 Aprile, questi tirocini si prestano a moltissimi abusi. E certamente è vero: sarebbe strano il contrario, in un Paese nel quale il lavoro nero viene valutato in circa 3.500.000 occupati! Ma il rimedio è drastico: ovvero tagliare la platea di coloro che possono fare un tirocinio extracurricolare, limitandone la possibilità soltanto ai soggetti più problematici del mercato del lavoro.
Il sito “Repubblica degli Stagisti” valuta che se le Regioni dovessero applicare nei termini più rigorosi le indicazioni contenute nel Def, che ammette ai tirocini soltanto “soggetti con difficoltà di inclusione sociale”, la norma si applicherebbe soltanto a soggetti in trattamento psichiatrico, tossicodipendenti ed ex tossicodipendenti, alcolisti ed ex alcolisti, condannati ammessi a misure alternative di detenzione, ex detenuti, rifugiati, richiedenti asilo. L’accesso ai tirocini si ridurrebbe così del 90%.
Molto probabile che le Regioni riducano l’impatto, ammettendo per esempio tra i candidati i disoccupati di lunga durata. Ma resta un interrogativo: quali vantaggi determina per il mercato del lavoro la stretta sui tirocini?
Tra il 2018 e il 2020 il 55% dei tirocinanti è stato assunto con contratto regolare entro sei mesi dalla fine dello stage, e il 31% proprio nell’azienda dove ha effettuato il tirocinio. Il 50% di esito positivo per una politica attiva sarebbe già un risultato più che rispettabile (Dote Unica Lombardia, la prima e più efficace politica attiva sperimentata nel Paese, ha un indice di successo che ondeggia tra 50% e 60%).
Sostiene Orlando, nella medesima audizione, che i tirocini a lieto fine sono quelli che riguardano “i soggetti più qualificati”, che quindi potrebbero essere assunti fin da subito con contratti più impegnativi. Un accenno al sospetto di “gaming” che aleggia sempre sulle politiche attive che si concludono positivamente: lo avrebbero comunque assunto perché ne hanno bisogno, tutto il resto è sfruttamento e approfittarsi di risorse pubbliche.
A un certo pensiero di sinistra l’idea che il mercato del lavoro possa essere qualcosa di diverso dall’inesorabile incastro tra una domanda e un’offerta da governarsi burocraticamente riesce incomprensibile.
A questo punto Orlando avanza il contratto di apprendistato come più seria alternativa al tirocinio. I contratti di apprendistato professionalizzante (secondo livello) hanno un esito positivo superiore al 70%, ma dopo oltre due anni di attività. La loro validità formativa è indubbia o meno, a seconda dei settori e dei profili professionali target. Il che in fondo vale anche per i tirocini.
D’altra parte: ammettiamo pure che i tirocini che si concludono con la stabilizzazione riguardino soggetti già formati (come nell’audizione ha sostenuto il ministro), e che quindi adempiano sostanzialmente a un ruolo di periodo di prova, che senso avrebbe sostituirli con un contratto di apprendistato, molto più lungo e con una componente formativa inutile?
Un contratto di apprendistato i cui contenuti formativi sono stocastici è un pessimo surrogato di un vero contratto di inserimento, già previsto dal Jobs Act e mai preso in considerazione (sarà per la damnatio memoriae che il sindacato ha comminato al Jobs Act e cui Orlando mostra di volersi attenere?), e al quale si surroga ogni tanto con sgravi contributivi per le assunzioni di determinate figure “problematiche”. Mentre i contratti di apprendistato ispirati a un autentico modello duale (primo e terzo livello, dove il target è l’acquisizione della professionalità e di un titolo di studio correlato) sono men che residuali: circa il 3% al Nord, dove il dato è migliore.
Come dovrebbe aver insegnato l’esperienza del Decreto Dignità, non è restringendo o chiudendo canali di accesso all’occupazione che si crea lavoro “di qualità”. Se si vuole evitare abusi nella gestione dei tirocini ,si può per esempio consentire alle imprese di attivare nuovi tirocini soltanto se sia stata stabilizzata una certa quota dei precedenti stagisti. Se abbiamo il tasso di occupazione giovanile e femminile più basso d’Europa (ce la giochiamo con la Grecia), i giovani e le donne rientrano forse nella categoria di soggetti con necessità di inclusione sociale? Se non lo capisce il ministro, lo capiranno le regioni?
Ma se il ministro Orlando pensa, come tanti a sinistra prima di lui, di creare buona occupazione a colpi di divieti e disposizioni, dovremo temere che abbia smarrito il senno, come nell’immortale poema “Orlando Furioso”, il suo omonimo e famoso paladino.