«La notte mi appare Andreotti, e io lo saluto con affetto». Vieni qui, Michele Santoro. Abbracciamoci. Piangiamo insieme di nostalgia per tutti quelli che abbiamo detestato, preso per il culo, dato per scontati quando il dualismo non era tra gente che sa fare un mestiere e scappati di casa. Straziamoci di rimpianto per certe feroci risposte andreottiane di non più di quattro parole.
Era una ventina d’anni fa, sembrano venti secoli. Michele Santoro – il più gran drammaturgo della tv italiana degli ultimi decenni – mi sembrava la tragedia d’un uomo ridicolo. Avevo guardato abbastanza tv nella vita da sapere già allora che era il più bravo, ma non bastava. Una volta scrissi che una giacca gli faceva difetto sulla pancia. L’anno dopo c’incontrammo a una serata elettorale (poi ci torniamo), e giorni dopo lui corse a dare un’intervista. Cito a memoria: ho conosciuto Guia Soncini, quella che scrive che non sono bello, e vedendola ho pensato, ma con che coraggio. Mi dispiacque moltissimo che non avesse capito che era una critica sartoriale: mai gli avrei dato del bambino grasso, conosco le regole del mondo e quelle dei carboidrati.
Comunque: pensavo fosse facile, avere in tv i Santoro (e i Guzzanti, e – avete capito: il Novecento). Ero cresciuta guardando la tv di quelli bravi: mica lo sapevo, che non sarebbe durata. E che essere bravi non basta a essere buoni maestri: quelli che hanno lavorato con Santoro sono tutti dei disastri. È come se da lui avessero preso solo l’ego e non il talento.
Poi l’altra sera Santoro va ospite del più belloccio dei suoi ex allievi, Corrado Formigli. È una mezz’ora straziante, e non solo per quell’incipit su Andreotti. Perché è evidente che Formigli pensa d’essere Giotto che ospita Cimabue per dimostrargli che ora il genio è lui, che l’ha superato, che conosce le regole del mestiere e gliene farà dono. Solo che quello è Cimabue ma l’altro è un allievo brocco di cui la storia non ci ha consegnato il nome, mica Giotto.
È come se Andreotti andasse ospite di Giuseppe Conte. È tutt’un sottotesto di: io sono ancora grande, sei tu che sei rimasto piccolo. È l’impietoso confronto tra uno che ha del mestiere, e uno che ha degli anelli.
C’è un momento in cui Formigli, la cui idea di intervista è buttare lì ogni tanto un trending topic, lo interrompe con un lunare «quindi sei d’accordo col professor Orsini», e Santoro sbotta «non è che lo dice Orsini, lo dice la logica». Poiché mi ero persa questo favoloso incontro giovedì sera, l’ho visto ieri. Subito dopo aver letto un articolo, probabilmente scritto da una aspirante Formigli, che cominciava così: «Siamo a New York: se ce la fai qui, ce la puoi fare ovunque, diceva Jack Nicholson nel film Qualcosa è cambiato». E perché non «Francamente me ne infischio, diceva Celentano su Rai 1». Nei giornali non c’è un Santoro che al brocco di turno – che purtroppo non sa niente – dica: ora ti spiego. Ti spiego Frank Sinatra, ti spiego Via col vento, ti spiego il mondo oltre Orsini e gli altri trendintò del tuo codice postale.
(Notevole anche, quanto a dinamica «t’interrompo con un trendintò», il passaggio in cui Santoro dice che la Rai non crea più dibattito culturale, «l’ultimo dibattito è stato sull’abbandono della compagna di Montalbano»; Formigli, che ascolta le risposte quanto le ascoltava Catherine Spaak ai tempi di Harem, lo interrompe: «E la guerra?»).
Ma il momento più squisitamente tragico dell’intervista fatta da Topo Gigio ad Hannibal Lecter – scusate: da Formigli a Santoro – è quello in cui Formigli gli legge una lettera che gli ha scritto (a Santoro) Enrico Letta. È stato lì che ho capito che Santoro vuole bene a Formigli (sarete affezionati anche voi a un figlio che non v’è riuscito particolarmente bene). Quando gli ha detto: «Fai il portalettere, come Chiambretti». Mentre non c’era persona che fosse stata viva negli ultimi venticinque anni che non vedesse, guardando Formigli, i «signora Pinuccia, c’è posta per te» dei postini di Maria De Filippi (nel mondo televisivo di Maria, Formigli sarebbe stato valorizzato per le sue qualità: a quest’ora lui sarebbe più ricco e noi avremmo una tv migliore).
Poi c’è l’elemento identitario, che travalica l’affetto: un maschio puoi trattarlo come un imbecille, e quindi Santoro può infierire con certi «Scusami: se non sono democrazie non sono Stati sovrani? Puoi ripetere?» che con la Innocenzi o la Costamagna non si sarebbe permesso mai.
Già si sapeva che non è il cosa, è il come: altrimenti Corrado e Michele farebbero lo stesso mestiere; altrimenti Giuseppe Conte, che in diretta Facebook dice «voi cittadini che ci seguite da casa» farebbe pure lui lo stesso mestiere (e probabilmente pensa di farlo, ha il piglio di chi sta per chiamare la réclame, dice a una telecamera le stesse cose sul budget per le armi che dice Santoro, però le dice peggio).
Quella sera di molti anni fa in cui Santoro non mi trovò abbastanza bella (ancora non me ne sono fatta una ragione, ma non distraiamoci con la mia indomita sofferenza), egli duettava su un palco napoletano con D’Alema. Erano tutti e due candidati alle Europee. Andando lì in macchina, nella conversazione era venuto fuori il Kossovo (ero giovane, cercavo di sembrare intelligente); avevo chiesto a D’Alema: «Come glielo spiega, a Santoro, che le fece la trasmissione dal ponte di Belgrado e che ora è un vostro candidato?»; D’Alema aveva risposto «Io? Io non gli devo spiegare niente. Sarà lui che deve spiegare perché si è candidato con me».
Prima del dibattito, in quella sera lontana in cui eravamo tutti più magri, Santoro aveva spiegato ai conduttori che le domande dovevano essere lunghe. D’Alema aveva sorriso con un certo compiacimento: «Era la tecnica delle interviste a Stalin. Loro chiedevano: “Compagno Stalin, è vero che mentre la Grande madre Russia sta lavorando pacificamente, l’America capitalista perpetra l’aggressione…” E lui rispondeva: “Sì”».
Ieri, mentre recuperavo Conte (già segnaposto, ora non saprei: forse aspirante Funari, ma meno talentuoso) che strologava rivolto a una telecamera per quarantaquattro minuti di monologo senza neanche la réclame, sfogliavo il Venerdì, dove Anais Ginori intervistava Emmanuel Carrère, che descriveva Putin come «un uomo solo e poco aperto al mondo. Putin si vanta di usare poco internet, di leggere solo le note dei suoi consiglieri». Quello viene da una grande tradizione di risposte monosillabiche; questi strologano allo stesso modo che siano divi televisivi o aspiranti capi di governo. Cosa potrà mai andar storto.