Dal 19 aprile all’8 maggio | Sala Treno Blu
GIOBBE
Storia di un uomo semplice
19/04 ore 21:00 – 20/04 ore 20:15 – 21/04 ore 18:45 – 22/04 ore 20:15 – 23/04 ore 20:15 – 24/04 ore 16:45
durata: 1 ora e 10 minuti
La tragedia e il riscatto di un uomo semplice, in uno spettacolo che attraversa la Grande Storia del Novecento, dalla guerra russo-giapponese alla prima guerra mondiale.
«Più di cent’anni fa, in Russia, in un piccolissimo villaggio di frontiera, viveva un maestro. Si chiamava Mendel Singer. Era un uomo insignificante. Devoto al Signore. Insegnava la Bibbia ai bambini, con molta passione e poco successo. Uno stupido maestro di stupidi bambini, come pensava di lui sua moglie».
Così inizia questo racconto, che attraversa trent’anni di vita della famiglia di Mendel Singer, di sua moglie Deborah e dei suoi quattro figli. Ma attraversa anche la storia del primo Novecento, dalla Russia all’America, dalla guerra russo giapponese alla prima guerra mondiale e oltre. Ma soprattutto attraversa il cuore di Mendel, lo stupido maestro di stupidi bambini, devoto al Signore, e dal Signore – crede lui – abbandonato.
Roberto Anglisani dà voce a tutti i pensieri dei protagonisti, alle paure, alle speranze e alla disperazione, alle preghiere e alle rivolte. Come dice Skowronnek, grande amico di Mendel Singer, «Noi siamo dentro il disegno, e il disegno ci sfugge», per questo Mendel – e tutti gli altri – fanno tanta fatica: la vita è un mistero, la fede un rifugio, e il dolore mette a dura prova anche l’uomo più giusto.
Giobbe – romanzo perfetto di Joseph Roth – diventa così un racconto teatrale tragicomico proprio come la vita, dove si ride e si piange, si prega e si balla, si parte, si arriva e si ritorna, si muore in guerra e si rinasce. Senza giudizio, senza spiegazioni: ma, attraverso lo sguardo mite e sereno di un narratore misterioso e onnisciente, ricco di compassione e accompagnati da un sorriso, lieve, dolcissimo, che spinge tutti i protagonisti di questa storia, lunga quanto una vita, e forse anche un po’ di più.
adattamento Francesco Niccolini
dal romanzo di Joseph Roth
consulenza letteraria e storica Jacopo Manna
con Roberto Anglisani
regia Francesco Niccolini
produzione Teatro Franco Parenti / CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia
Spettacolo vincitore dei “Teatri del sacro” 2017
19 aprile | Sala Grande
UN RITORNO… AL FUTURO
Moni Ovadia e e il Parenti + spettacolo Alcesti – è ancora buio?
Ore 20:00
Celebrare il cinquantesimo anniversario del Teatro Franco Parenti significa ripercorrere la sua storia e al tempo stesso rendere il passato un terreno fertile per il futuro.
Tra passato e futuro si colloca questa serata nella quale Moni Ovadia condivide con il pubblico i momenti più significativi della storia comune con il Parenti e presenta al Teatro e alla sua comunità un nuovo spettacolo per il futuro:In un mondo in cui si alzano muri e barriere, in cui si stigmatizza il diverso, in cui si definisce ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, in scena uno spettacolo che vuole mettere in luce la complessità delle azioni umane, provando a non giudicarle. Una confessione, l’autoanalisi a tratti cinica, ironica e lucida di un’Alcesti alla ricerca di risposte e verità. Un vortice di domande che tormenta l’animo di chi deve compiere una scelta estrema.
Alcesti è la storia di una coppia, ma anche la storia delle parole, parole per cui si va a morte, parole strumentalizzate, parole dette per non dire, parole non dette ma percepite, “parole come recinzioni, definizioni”. La vicenda è ambientata in un tempo e in un luogo non specificati, dominati da una feroce dittatura: il marito di Alcesti scrive una commedia scomoda che ottiene un successo inaspettato, e per questo suo tentativo di sobillazione viene messo a morte.
L’avvocato di famiglia però, trova l’unica via di fuga ad una condanna certa: far sì che qualcun altro si assuma la paternità dell’opera e quindi muoia al posto suo. Alcesti è la sola ad offrirsi volontaria. Ed è proprio a quell’avvocato, che involontariamente salva lui e uccide lei, che la nostra protagonista si rivolge nella sua ultima ora di vita. Siamo in una stanza d’albergo. È giunto il fatidico momento della firma del contratto. È tutto finito… o forse no. Quale migliore occasione per dire per la prima volta ad alta voce ciò che si pensa o per “riscoprire” ciò che si pensa se non quando non si ha più niente da perdere? Pian piano, più o meno consapevolmente, il momento della firma si trasforma per Alcesti in una confessione, un’autoanalisi, a tratti cinica, ironica, isterica, lucida. Quella ricerca di risposte, di verità e di conferme, quel vortice di domande che ci poniamo quando ci troviamo in una “situazione-limite” come quella di Alcesti, un conto alla rovescia verso la morte.
Il dramma di Alcesti si fonda sull’identità, un’identità mancata, presunta, frammentata. Ha fondato tutta la sua vita sulle convinzioni altrui (la madre, il marito) e ora, nel momento del massimo bisogno, non sa più chi è e quale sia il suo posto nel mondo. Forse che, in una paradossale provocazione, chi non ha trovato la propria identità nella vita può trovarla nella morte?
Moni Ovadia racconta i momenti più significativi della storia comune con il Parenti
a seguire lo spettacolo
Alcesti – è ancora buio?
di Viola Lucio
con Serena Ferraiuolo
regia Zoe Pernici
light designer Alessandro Barbieri
musiche Gino Giovannelli
Dal 20 aprile al 1 maggio | Sala Grande
MORTE DI UN COMMESSO VIAGGIATORE
20/04 ore 19:45 – 21/04 ore 21:00 – 22/04 ore 19:45 – 23/04 ore 19:45 – 24/04 ore 16:15 – 26/04 ore 20:00
Durata 2 ore e 25 minuti compreso intervallo
Uno dei personaggi più noti della letteratura americana, più volte portato sulla scena e sullo schermo, torna a vivere nella regia di Leo Muscato nell’interpretazione di Michele Placido.
È la storia di Willy Loman, un piccolo uomo, e del suo sogno più grande di lui. Loman è nato in America, sogna a occhi aperti il successo facile, veloce. Si guadagna da vivere con la parlantina e ha allevato i figli nel culto dell’apparenza e della superficialità, facendone dei falliti. Quando le sue forze vengono meno, però, il suo mondo si incrina, gettandolo nello sconforto.
Tracciando bilanci del secolo che si concludeva, agli inizi dell’anno 2000 la rivista Time elencò i dieci lavori teatrali più significativi del Novecento. Il primo posto assoluto toccò a I sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello. Il secondo andò a Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller: senza alcun dubbio la Grande Commedia Americana, quella che gli americani sentono come più autenticamente “loro”. Viene ripresa in continuazione in tutto il mondo, ma con Broadway ha un rapporto particolare. In una occasione particolarmente solenne, cinque o sei anni fa, il grande Mike Nichols la mise in scena riproducendo meticolosamente scene, costumi, musica e regia dell’edizione originale del 1948, con un interprete di eccezione come Philip Seymour Hoffman. Alla fine dell’ultima replica di questa produzione il pubblico come se si fosse dato un segnale non applaudì ma si alzò in piedi compatto, come davanti a un rito. Perché il Commesso colpisce così profondamente? E perché è così americano (ma allo stesso tempo, così internazionale: se ne registrano persino versioni russe e cinesi in chiave anticapitalista e anticonsumista)? Perché è la storia di un sogno; la storia di un piccolo uomo e del suo sogno più grande di lui. Nella fiaba della farfalla e della formica, le simpatie vanno alla farfalla, benché questa venga sconfitta. E Willy Loman, sconfitto alla fine come la farfalla, non ha pazienza. È nato in un paese giovane e impaziente, forse figlio di immigrati; non ha radici, vuole salire nella scala sociale. Sogna a occhi aperti il successo facile, veloce. È un commesso viaggiatore che si guadagna da vivere con la parlantina, e ha allevato i figli al culto dell’apparenza e della superficialità; a disprezzare il cugino secchione e a puntare tutto sull’effimero; a essere attraenti, popolari, campioni sportivi. Ma ha finito per farne dei falliti, vedi soprattutto il maggiore, Biff, la luce dei suoi occhi, che però una volta questo padre deluse, distruggendo la propria immagine. Da allora il ragazzo ha perso ogni spinta e coltiva le proprie frustrazioni (è caratteristicamente americano anche questo incolpare i difetti dei genitori per giustificare le proprie sconfitte).
Sostanza a parte, è anche nella forma che il lavoro colpì ai suoi tempi per la novità, stimolando i registi (Elia Kazan, Luchino Visconti furono i primi) a trovare soluzioni per una narrazione di tipo cinematografico, con brevi scene in più luoghi e con un continuo altalenare tra presente e passato. Per dimostrare che sapeva quello che faceva, prima di comporre questo mosaico Miller scrisse un dramma dalla struttura rigorosamente classica, Erano tutti miei figli, tre atti con unità di tempo, luogo e azione. Il Commesso mischia invece verità e allucinazione, si svolge contemporaneamente sulla scena, sotto gli occhi del pubblico, e nella testa del protagonista, nella quale noi spettatori, a differenza dagli altri personaggi, siamo chiamati a entrare. Ne risulta una macchina di teatro che è rimasta appassionante e attuale oggi come ai giorni del suo debutto. – Masolino D’Amico
Michele Placido
Alvia Reale
in
Morte di un commesso viaggiatore
di Arthur Miller
traduzione di Masolino D’Amico
con Fabio Mascagni, Michele Venitucci
con la partecipazione di Duccio Camerini nel ruolo di Charley
e con Stefano Quatrosi, Beniamino Zannoni, Paolo Gattini, Caterina Paolinelli, Margherita Mannino, Gianluca Pantosti, Eleonora Panizzo
regia Leo Muscato
scene Andrea Belli
costumi Silvia Aymonino
disegno luci Alessandro Verazzi
musiche Daniele D’Angelo
produzione GOLDENART PRODUCTION in coproduzione con Teatro Stabile del Veneto e Teatro Stabile di Bolzano
21 aprile | Sala AcomeA
INCONTRO CON GIORGIO FONTANA
Reading e presentazione del romanzo Il Mago di Riga
ore 19:00
I vizi, il fascino del rischio, i rapporti con l’URSS, l’amore per la libertà contro il grigiore del potere. Michail «Miša» Tal’ (1936-1992), che prima di Kasparov fu il più giovane Campione del mondo della storia, sconvolse l’universo degli scacchi incarnando il gioco come arte, invenzione, complicazione. Lo chiamavano il Mago di Riga per la capacità di «evocare tutte le forze oscure che ogni posizione celava dentro di sé»: bramava il disordine e il sacrificio dei “pezzi”, opposti ai prevalenti distillati di razionalità e pragmatismo. Tra una mossa e l’altra, Miša ricapitola a lampi di memoria la sua movimentata e anarchica esistenza. Cinquantacinque anni segnati dal genio precoce e da costanti malattie, ma vibranti di un gioioso, fraterno e dissipato desiderio di vivere.
In questo romanzo Giorgio Fontana racconta l’epica di un uomo straordinario che raggiunge la vetta profondendo in ogni mossa l’amore per il rischio, lontano da qualunque cinismo, e dimostrando a un mondo incredulo che talora le storie sono più forti della realtà – che due più due, come Miša amava dire, può fare cinque.
In occasione della uscita del nuovo romanzo di Giorgio Fontana
Il Mago di Riga, edito da Sellerio
l’autore dialoga con Marco Missiroli
musiche di Matteo Pirola