A trent’anni dall’assedio di Sarajevo, le spinte secessioniste in Bosnia-Erzegovina continuano a crescere. Una nuova possibile crisi sta montando nel cuore dell’Europa.
Già lo scorso novembre, l’Alto rappresentante per la Bosnia ed Erzegovina, Christian Schmidt, istituzione che rappresenta la comunità internazionale e garantisce il rispetto degli accordi di pace di Dayton, aveva avvertito del rischio di un’implosione della federazione serbo-croato-musulmana creata nel 1995 e della ripresa del conflitto interetnico nel Paese.
Le mire secessionistiche di Milorad Dodik, membro serbo della presidenza tripartita, vanno avanti da tempo, nella speranza che la Republika Srpska – l’entità a maggioranza serba della Bosnia-Erzegovina – si unisca a Belgrado.
A fine 2021 Dodik ha annullato l’emendamento del codice penale bosniaco che vieta la negazione dell’eccidio di Srebrenica e la glorificazione dei criminali di guerra – emendamento imposto a luglio dall’allora Alto rappresentante Valentin Inzko – e ha indotto il Parlamento regionale della Republika Srpska a perseguire percorsi di stampo separatista in ambito militare, giudiziario e fiscale.
L’idea è la ricostruzione di un esercito serbo-bosniaco e il trasferimento delle competenze esclusive di Sarajevo alla Republika Srpska.
A inizio febbraio, i legislatori serbi hanno votato a favore della creazione di organi separati della Republika Srpska: il Consiglio Superiore della Magistratura e il Pubblico Ministero, una legge poi giudicata incostituzionale dall’Alto rappresentante Schmidt.
Le ambizioni di Dodik, anche se frenate, possono sempre contare sul sostegno di Vladimir Putin. Negli ultimi anni i serbi e la Serbia hanno mantenuto una neutralità di facciata nell’ambito della crescente rivalità tra l’Occidente e la Russia. Ma i rapporti con il Cremlino sono comunque molto buoni: Belgrado ha bisogno del supporto di Mosca soprattutto sulla questione del Kosovo alle Nazioni Unite.
Ma è per il settore energetico che la Serbia non può fare a meno della Russia. Belgrado al momento gode di un contratto di 6 mesi per la fornitura di gas a un prezzo particolarmente vantaggioso. Il Paese dipende dall’energia russa per l’89%, un vincolo che si traduce inevitabilmente in una grandissima vulnerabilità.
Se lo volesse, Bruxelles potrebbe mettere in crisi tale fornitura perché il gas e il petrolio russi diretti in Serbia passano per Ungheria e Bulgaria, due Paesi membri dell’Unione. La Serbia, inoltre, non ha aderito alle sanzioni contro Mosca e non è nella lista dei Paesi ostili stilata dal Cremlino, che starebbe tenendo conto dell’amicizia di Belgrado.
«L’elemento centrale della vicinanza tra la Serbia e la Russia è la condivisione di un modello politico autoritario, l’aspetto certamente più allarmante di tale relazione», dice a Linkiesta Giorgio Fruscione, analista di Ispi. «Dodik ha fondato la propria carriera politica sul ricorso alle minacce alla tenuta dello Stato centrale, cercando di minare le istituzioni collettive del fragile Stato bosniaco. Queste minacce sono aumentate di intensità nel corso degli anni, fino a raggiungere quello che probabilmente è stato il punto di non ritorno tra l’estate del 2021 e l’inizio di quest’anno. Le minacce quindi sono precedenti alla guerra in Ucraina, ma quest’ultima non fa che rendere la crisi bosniaca ulteriormente allarmante. È questo è un motivo per essere ulteriormente preoccupati in Europa».
Non a caso, lo stesso giorno in cui Putin dava inizio all’invasione dell’Ucraina, veniva raddoppiato il contingente internazionale Eufor in Bosnia-Erzegovina con l’intento di creare un deterrente contro possibili conseguenze dell’attuale instabilità istituzionale bosniaca.
Sono scelte prese prima dell’inizio della guerra ma la cui tempistica lascia pensare che l’Unione europea si stia preparando a scongiurare lo scenario peggiore nei Balcani.
In Bosnia-Erzegovina si assiste a un gioco delle parti in cui i toni sono ora molto più accesi rispetto al passato. Ma il trend delle minacce va avanti dal dopoguerra, e negli ultimi mesi ha «solo, si fa per dire, aumentato l’intensità e la portata», spiega l’analista.
Sarebbe dunque sbagliato pensare a un conflitto simile a quello di trent’anni fa. Quella è una condizione quasi irripetibile, a partire dal fatto che non sarebbe economicamente sostenibile e non avrebbe lo stesso supporto da parte della popolazione.
«Credo – aggiunge Fruscione – che non ci sarà una guerra vera e propria perché, per i leader serbo-bosniaci, è molto più conveniente minacciarla che combatterla davvero. Dal punto di vista politico, conviene di più ergersi a difensori del gruppo nazionale in un Paese multinazionale. E, dall’altro lato, è molto più conveniente ergersi a difensori del gruppo nazionale contro la minaccia secessionistica. Senza voler minimizzare le minacce allo Stato centrale bosniaco, che restano sicuramente serie, lo scenario che potrebbe crearsi è una sorta di Transnistria balcanica, quindi uno Stato che si dichiara indipendente senza però alcun riconoscimento internazionale». Un quadro tuttavia che per la Bosnia-Erzegovina comporterebbe una paralisi istituzionale dalla quale sarebbe difficile uscire.
La promessa della stabilizzazione dei Balcani attraverso l’integrazione nell’Unione europea oggi non è così concreta. Ma di fronte alla guerra in Ucraina, Bruxelles potrebbe cambiare atteggiamento verso Belgrado.
La Serbia si pone ancora come primissimo obiettivo di politica estera entrare a far parte dell’Unione europea. A Belgrado, a livello retorico, viene ancora riconosciuto il ruolo di capofila del processo di integrazione dei Balcani, non senza ipocrisia, perché Bruxelles ha chiuso un occhio sulla regressione democratica del Paese.
«A causa della guerra in Ucraina – conclude Fruscione – l’Unione europea potrebbe decidere di non tollerare ulteriormente il comportamento serbo, ossia avvalersi di un rapporto privilegiato, economico e commerciale con i membri dell’Unione e allo stesso tempo sfruttare l’alleanza politica con Mosca per perseguire i propri obiettivi di politica internazionale. Tuttavia, presto potrebbe farsi sentire sulla Serbia il pressing dei partner occidentali: la speranza è che venga posta una condizionalità per il processo di adesione all’Unione europea».