La birra è tra le bevande alcoliche più bevute dagli italiani (nel 2018 ne abbiamo consumati 20 milioni di ettolitri), nonché una delle più amate in tutto il mondo. La sua produzione è cresciuta del 23% tra il 2010 e il 2020 – l’ultimo anno per cui sono disponibili i dati forniti dall’Associazione Nazionale dei produttori della Birra e del Malto (AssoBirra) – e il comparto produttivo può contare, in Italia, su oltre 900 imprese e 115.000 occupati.
Il valore condiviso generato dalla birra, stando ai dati del 2019, ammontava a 9,5 miliardi di euro: il 18% era concentrato nella produzione, mentre la restante parte era suddivisa tra distribuzione, vendita e consumo finale. Il settore ha risentito, come molti altri, delle ricadute e delle contrazioni derivanti dalla pandemia da covid-19: dalla chiusura obbligata dei punti di ristoro alla riduzione delle spese individuali dei consumi. Ma le prospettive per il futuro, superata la fase più dura dell’emergenza sanitaria, sono più rosee grazie al ritorno della socialità e alla ripresa della produttività.
In pochi, però, sono consapevoli del fatto che per produrre un barilotto di birra si generano 57 chilogrammi di anidride carbonica (CO2), ossia l’equivalente di 220 chilometri percorsi in automobile. Insomma, l’intero ciclo di produzione della birra è molto inquinante.
A dimostrarlo è stata un’analisi imparziale realizzata da Migration Bering, una catena di ristoranti statunitensi, giunta a conclusioni inaspettate. Mike Branes, il responsabile del birrificio aziendale, ha affermato di «essere molto sorpreso da quante emissioni vengono generate da un barile di birra» e «di essere consapevole che ci fosse un impatto sull’ambiente ma di non essere sicuro della sua portata».
Gran parte delle emissioni deriva dall’energia elettrica impiegata dai macchinari del birrificio, mentre il resto dell’impatto ambientale era riconducibile alla produzione e al trasporto dell’orzo. Inoltre, le acque reflue provenienti dai birrifici possono causare problemi di inquinamento negli specchi d’acqua dove vengono riversate, come accaduto al lago Champlain nel Vermont. I birrifici producono una enorme quantità di acque reflue, come sottolineato da Chapin Spencer, il direttore del Dipartimento dei lavori pubblici dell’area in cui si è verificato il disastro ambientale (Burlington).
Spencer, intervistato da Water Online, ha detto che «in media ci vogliono quattro o cinque galloni di acqua per produrne uno di birra, e ciò fa sì che questa industria sia ad alta intensità per quanto riguarda il consumo di acqua». «I birrai», prosegue Spencer, «possono provare a ridurre i composti organici presenti nelle acque reflue, provando a separarli ed inviandoli verso altre destinazioni».
In Italia numerosi birrifici hanno deciso di fare dell’ecosostenibilità il proprio punto di forza da diversi anni, stabilendo anche dei primati a livello globale. Già nel 2015 AssoBirra sottolineava come, nel giro di vent’anni, nel settore italiano siano state abbattute di due terzi le quantità di acqua consumata nella produzione. Inoltre, è sceso di oltre un quarto il consumo di energia per ettolitro. Per quanto riguarda le emissioni di anidride carbonica – che contribuiscono al riscaldamento globale – si è verificata una riduzione del 40%.
Negli anni la situazione è ulteriormente migliorata, con diversi casi concreti in grado di dimostrarlo. Il birrificio Heineken a Massafra, in provincia di Taranto, è il primo al mondo per produzione di energia derivante dal sole e per numero di pannelli solari installati (13mila). A San Giorgia del Nogaro, in provincia di Udine, l’impianto fotovoltaico del birrificio Birra del Castello ha ridotto le emissioni di CO2 di 445 tonnellate l’anno. Inoltre, si stanno diffondendo birrifici artigianali in grado di utilizzare il vapore geotermico come fonte energetica primaria per il processo industriale brassicolo.
Nel 2018, il birrificio Flea di Gualdo Tadino (Perugia) ha lanciato la prima birra al mondo amica dell’ambiente, al 100% e prodotta grazie all’acqua estratta artificialmente dall’umidità dell’aria. La scelta è stata motivata dal fatto che l’acqua, principale ingrediente della birra, inizia a scarseggiare. La birra Amarcord, del birrificio della famiglia Bagli di Rimini, utilizza solamente energia elettrica da fonti 100% rinnovabili, in parte acquistata da fonti certificate ed in parte prodotta da un impianto fotovoltaico installato nel 2010.
Il settore della birra dell’Unione europea sta trovando soluzioni alternative per riciclare i sottoprodotti sprecati e contribuire agli obiettivi green fissati da Bruxelles. Uno di questi consiste nel trasformare il residuo del malto di orzo – che “avanza dopo il processo di fermentazione – in cibo per gli esseri umani piuttosto che in mangime animale (come è stato fatto sino ad oggi).
I cereali “spesi” – come ricordato da Home Green Home – devono diventare chicchi “risparmiati” e possono trasformarsi in una bevanda analcolica, oppure in cracker. Questi cereali, al contrario di ciò che si potrebbe pensare, sono adatti al consumo da parte dell’uomo. E possono rivelarsi anche molto nutrienti. Più circolari di così?