Nel dicembre 2019 stavo dando gli ultimi ritocchi alle prime bozze di questo libro, quando un ceppo sconosciuto di coronavirus è emerso nella città di Wuhan, nella Cina centrale, per poi diffondersi e mietere vittime in tutto il globo. Di lì a poche settimane, il Covid-19, la malattia causata dal nuovo coronavirus, aveva infettato più o meno centomila persone nella sola Cina, causando migliaia di morti.
Tra gennaio e febbraio, quando decine di milioni di abitanti della Cina centrale vivevano una quarantena senza precedenti, si è arrivati a una paralisi della produzione e allo stop quasi totale dell’attività economica. L’economia cinese avrebbe subìto conseguenze gravi. Per quanto il governo avesse messo prontamente sotto controllo il virus, la ripresa era rallentata dal crollo della domanda globale, dal momento che il coronavirus aveva colpito anche l’Europa e il Nord America. In aprile, i funzionari cinesi annunciavano che rispetto all’anno precedente l’economia nazionale aveva perso il 6,8% nel primo trimestre del 20201, interrompendo così una crescita continua che aveva superato persino due scogli come la repressione di piazza Tiananmen e la crisi finanziaria globale del 2008.
Dato lo scompiglio in cui aveva gettato l’economia, il virus minacciava di far deragliare le ambizioni strategiche di Pechino nel Sudest asiatico. Da Boten, nel Laos, fino a Bandung, in Indonesia, i lavori per le infrastrutture della Nuova via della seta vivevano una fase di stallo, dato che gli operai e gli ingegneri cinesi non potevano nemmeno raggiungere i cantieri. Molti di quei progetti dipendevano, inoltre, dalla continua disponibilità di credito a tassi convenienti da parte delle banche statali cinesi. La minaccia di una contrazione economica globale protratta, e la conseguente stretta creditizia, gettavano pertanto dubbi sulla possibilità che la Cina facesse fronte ai miliardi di dollari necessari per gli impegni della Bri.
In questo senso, la pandemia di coronavirus è servita da promemoria delle tante sfide, sia interne sia esterne, che si presentano al governo del presidente Xi Jinping: dalla spoliazione ambientale all’invecchiamento della popolazione, dai disordini a Hong Kong alla crescente condanna internazionale verso gli internamenti di massa dei musulmani uiguri dello Xinjiang. La sospensione delle attività aveva colpito un’economia che già cresceva ai tassi più bassi da trent’anni, tanto che s’ipotizzava che la crisi potesse accelerare una diversificazione delle filiere globali lontano dalla Cina, processo in corso da quando erano nate le tensioni commerciali con gli usa a metà del 2018. A ciò si aggiungeva la minaccia del contraccolpo globale suscitato dagli errori di Pechino nelle prime fasi dell’epidemia di Covid-19, quando non si erano comunicate a dovere le notizie e si era intervenuti tardi nel mettere in isolamento l’epicentro del contagio a Wuhan, dando così modo al virus di diffondersi. Tutte criticità che ricordavano quanto la crescita illimitata della ricchezza e del potere cinesi non fosse più una realtà ovvia.
La pandemia ha avuto conseguenze profonde anche nel Sudest asiatico. In marzo, quando il coronavirus imperversava in Europa e negli Usa, si profilava la possibilità che la flessione economica superasse, di diversi ordini di magnitudo, l’ultima grande crisi regionale. E la crisi finanziaria asiatica del 1997 aveva avuto ampi strascichi politici, tanto da accelerare la caduta di Suharto in Indonesia e l’ascesa di Thaksin Shinawatra in Thailandia, evento che continuava a farsi sentire nella vita del Paese. Date le fibrillazioni sulla scena politica di Thailandia, Malesia, Indonesia, Filippine e Birmania, era difficile supporre che un declino economico così improvviso avrebbe lasciato completamente immutato il panorama del Sudest asiatico.
Le prime fasi della pandemia avevano anche mostrato chiaramente in che misura il Sudest asiatico dipendesse dal commercio, dagli investimenti e dal turismo cinesi. Da Bali ad Angkor Wat, i templi, le spiagge e i mercati all’aperto rimanevano deserti, data la mancanza delle comitive turistiche cinesi. Sui cantieri di Phnom Penh era calato il silenzio e i carichi di angurie birmane marcivano sui camion fermi alla frontiera. A Penang e a Hanoi le fabbriche languivano a causa dell’interruzione delle filiere che partivano dalla Cina e dell’affossamento della domanda cinese. Ancora prima che venisse dichiarata una pandemia globale, il coronavirus aveva messo a nudo la vulnerabilità della regione a qualunque scossone potesse investire la vita cinese.
Ma nonostante tutte le sue implicazioni dirompenti, la pandemia di Covid-19 non è riuscita ad alterare in alcun modo le relazioni del Sudest asiatico con la Cina. Per dimensioni e vicinanza, Pechino poteva contare sul fatto che sarebbe rimasta un attore centrale nella regione, nonostante il rallentamento della crescita la obbligasse a una ritirata in altre parti del mondo. C’erano buone probabilità che il contagio avrebbe spinto alcune nazioni del Sudest asiatico a ridurre la propria dipendenza dalle filiere cinesi. Laddove era pronta, la regione poteva anche trarre giovamento dalla delocalizzazione delle basi produttive dalla Cina. Ciò non toglie che i precedenti storici mostrassero che la Cina avrebbe svolto un importante ruolo di paracadute per gli strascichi negativi di ordine economico e politico, e in effetti la regione in seguito ha dovuto fare affidamento sui vaccini per il Covid-19 prodotti da aziende cinesi. Le nazioni della regione si sarebbero trovate nella stessa posizione conflittuale di prima: a bilanciare i timori suscitati dalla potenza cinese sarebbe stata la forte incidenza della sua stabilità e crescita continue.
Allo stesso tempo, era anche probabile che restassero intatte, o addirittura si aggravassero, le tante sfide che Pechino era chiamata ad affrontare nel Sudest asiatico. Nonostante i tentativi di «soft power», come la campagna di soccorso sanitario globale durante la crisi del covid-19, la leadership comunista cinese doveva combattere strenuamente per convincere la regione delle proprie intenzioni pacifiche e sponsorizzare la propria idea di co-prosperità. Il problema è che per molti aspetti – dalle paure per il debito e per la prepotenza di Pechino sui mari, fino alle esternalità dei grandi progetti infrastrutturali –, la Cina continuava a screditare nei fatti le proprie promesse.
Inoltre, si alzava il livello di allarme suscitato dai nuovi flussi di immigrati cinesi e dal rapporto che il Pcc intratteneva con la diaspora, questioni che toccavano il nervo scoperto della sovranità. Si profilano così le difficoltà complessive che il governo cinese incontra nel trascendere il proprio atteggiamento solipsistico verso la regione. Per quanto Pechino stia recuperando il potere e la ricchezza di un tempo, le sue azioni restano improntate al mito della vittimizzazione da parte delle potenze imperiali, passate o presenti che siano. Finché resterà legata a quest’idea, è molto probabile che la classe dirigente cinese non riuscirà a capire perché il suo potere e il suo comportamento provochino preoccupazioni così persistenti. Il rapporto tra Cina e Sudest asiatico si basa dunque su una contraddizione sempre più tesa tra la percezione di sé professata dal Pcc come parte lesa dei disegni occidentali e la realtà del proprio fiorente potenziale imperiale. Persino quando propugna il principio della sovranità nazionale, la Cina appare minacciarlo.
Mentre le singole nazioni del Sudest asiatico affrontano questo dilemma, la potenza cinese pone gravi sfide anche all’Asean nel suo insieme. Durante la Guerra fredda, l’Asean aveva rappresentato, nel contesto della competizione fra superpotenze, uno spazio di autonomia per i piccoli Stati del Sudest asiatico. Nel suo mezzo secolo di vita è riuscita a mantenere la pace tra i suoi componenti, dotandoli di un meccanismo che garantisse un minimo di coesione e ordine. Ma la caratteristica specifica che consente all’Asean di agire da paciere negli scontri di sovranità – ovvero il suo assetto decisionale flessibile e basato sul consenso – oggi rischia di diventare paralizzante. Come osserva Amitav Acharya, l’allargamento negli anni Novanta a Vietnam, Cambogia, Laos e Birmania ha avuto un effetto paradossale: pur restituendo un’immagine di Sudest asiatico come regione unica e «coerente», ha aumentato l’eterogeneità politica del blocco, in modo tale che raggiungere il consenso su questioni fondamentali è diventato più complicato. È su questa diversità che la dirigenza cinese ha fatto leva per il proprio tornaconto.
da “All’ombra del Dragone. Il Sudest asiatico nel secolo cinese”, di Sebastian Strangio, Add editore, 2022, pagine 511, euro 20