Una fila di uomini avanza a passo lento in mezzo alle spighe di grano. Dietro di loro si apre sullo sfondo la vista delle tende del campo profughi di Pournara. Sotto il sole cocente di Cipro, con le temperature che hanno raggiunto 30 gradi, uomini, donne e pochissimi bambini, si fanno strada sull’unico sentiero sterrato che dal campo conduce al primo supermercato raggiungibile a piedi. Una camminata di trenta minuti che spesso fiacca i più anziani o i più deboli.
Una donna somala con il capo avvolto nel suo hijab dopo qualche metro si accascia a terra, non riesce a continuare il percorso e decide di fare marcia indietro verso il campo sostenuta per il braccio da una sua amica.
Siamo nel centro di accoglienza di Pournara, che sorge in un’area industriale a lato di un’autostrada, a circa dieci chilometri dalla capitale Nicosia. Nato alla fine del 2019 per accogliere al massimo 800 persone, ora ne ospita più di 3mila. Accanto ai piccoli container dell’inizio, sono state erette le tende dell’Unhcr dove di notte si dorme in dieci, quindici, venti persone.
Nelle tende si dorme tutti schiacciati, uno accanto all’altro, direttamente sul suolo: non ci sono né letti, né materassi. Spesso a fare visita sono i serpenti e l’unica alternativa per chi non riesce ad addormentarsi in queste condizioni, rimane prendere le proprie coperte, stenderle per terra fuori il recinto del campo e trascorrere la notte al chiarore della luna.
Di giorno l’incubo ricomincia: file che durano ore per andare al bagno, per ricevere i pasti o per farsi una doccia. Durante le ore diurne l’assenza di ombra costringe i suoi ospiti a cercarla disperatamente nelle aree circostanti, sotto i pochissimi alberi presenti o sotto baracche di fortuna. È in una di queste che incontriamo Nasir, ragazzo afghano di 23 anni giunto nel campo due mesi fa. Lamenta la mancanza di sensibilità delle autorità greche e la negligenza riservata alla salute delle persone: «Mia moglie sta male da circa tre settimane. Le hanno fatto delle analisi del sangue ma a dodici giorni dal prelievo ancora non sono arrivati i risultati. Siamo molto preoccupati, perché ci trattano così? Non sanno da cosa scappiamo?»
Nasir e sua moglie provengono da Mazar I Sharif, una città afghana a pochi chilometri dai confini con Turkmenistan, Uzbekistan e Kirghizistan. Sono entrambi di etnia hazara, la minoranza sciita tra le più perseguitate nel Paese. Solo pochi giorni fa, il 21 aprile, nella loro città si è consumato l’ultimo sanguinoso attacco contro i fedeli sciiti che si erano riuniti nella moschea di Seh Dokan. Un’esplosione, poi rivendicata dallo Stato islamico, nella quale hanno perso la vita 12 persone e altre 58 sono rimaste ferite. L’attacco è avvenuto solo due giorni dopo le esplosioni che hanno colpito delle strutture educative in un quartiere a maggioranza sciita della capitale Kabul, uccidendo almeno sei ragazzi e ferendone altri venti. Nasir è fuggito perché, come dice lui, «la vita in Afghanistan non vale niente». La sua famiglia sa già cosa significa essere dei rifugiati in un Paese straniero.
Nel 1996, per sfuggire al regime dei talebani, la famiglia di Nasir ha riparato in Pakistan ed è qui che lui è nato tre anni dopo. Sarà solo nel 2002, con l’occupazione statunitense e la caduta dal potere degli studenti coranici, che il padre di Nasir decide di tornare nella loro città. Adesso questa scelta è diventata il suo rammarico più grande, ci confida Nasir. «Se avessimo saputo che dopo vent’anni i talebani sarebbero tornati e gli occidentali scappati in questa misera maniera, ce ne saremmo sicuramente andati prima» afferma amareggiato.
Nasir si sente tradito, doppiamente tradito. Il primo tradimento è stato quello che ha subito in Afghanistan e la fuga rocambolesca dal Paese. Il secondo tradimento è quello che vive qui tutti i giorni: in condizioni di vita al limite del sopportabile. «Io e mia moglie siamo arrivati due mesi fa e ancora non ci hanno nemmeno registrati. Non potrei nemmeno uscire fuori dal campo. In questo momento, all’ombra di questa lamiera, sono un illegale».
Nasir poi continua con le sue domande. «Voi che potete allontanarvi da qui avete conosciuto i profughi ucraini? Ho letto che ne hanno accettati molti». Stando agli ultimi numeri disponibili, sono più di 15.000 gli ucraini ospitati nella Repubblica di Cipro, un terzo di questi era già residente nell’isola prima dell’invasione russa. Come si legge dai quotidiani locali, i rifugiati ucraini a Cipro riceveranno una carta che darà loro accesso all’alloggio, al cibo e alle cure mediche come parte del regime di protezione temporanea.
Il ministro degli interni Nicos Nourris ha dichiarato che gli ucraini «sono rifugiati che non hanno nulla a che vedere con l’immigrazione illegale e irregolare».
La Repubblica di Cipro ha visto un picco di arrivi irregolari negli ultimi anni. Il Paese ha uno dei più alti tassi di richiedenti asilo pro capite tra i 27 membri dell’Unione europea. Il 5% della popolazione greco-cipriota è infatti costituita da richiedenti asilo. Nel 2020, il Paese di 1,2 milioni di persone è stato in cima alla lista con 8.448 richieste di asilo.
Quest’anno, secondo l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, sono stati registrati più di 2.100 arrivi, la maggior parte dei quali via terra. L’anno scorso gli arrivi sono stati più di 12.300, quattro volte tanto rispetto al 2020. Il governo della Repubblica di Cipro accusa la Turchia e le autorità turco-cipriote del nord di essere complici dell’arrivo dei migranti. Il numero di migranti che hanno attraversato la zona cuscinetto dal nord turco-cipriota alla Repubblica di Cipro, nel periodo gennaio-aprile è aumentato del 184% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. In risposta a questi attraversamenti, nel 2021 il governo cipriota ha annunciato il piano di costruzione di una barriera per impedire l’attraversamento dei migranti dalla parte settentrionale dell’isola.
Secondo quanto riporta Euromed Rights, Cipro ha firmato un accordo da 27,5 milioni di euro con Israele per installare un sistema di monitoraggio lungo i 180 chilometri di confine, pattugliati dalle Nazioni Unite, che la dividono dalla Repubblica turca di Cipro del Nord. Tutti i rifugiati che abbiamo intervistato hanno dichiarato di essere entrati nella Cipro greca, e quindi nell’Unione europea, attraversando proprio questa frontiera turca con l’aiuto dei trafficanti che li hanno nascosti in macchina. Nonostante la stragrande maggioranza varchi il confine via terra, un più basso numero di profughi arriva via mare partendo dal Libano o dalla Turchia.
Lo scorso 22 agosto la polizia marittima cipriota ha intercettato due imbarcazioni con a bordo 88 migranti al largo della costa dell’isola. I migranti, prima soccorsi, sono stati rimandati in Libano il giorno dopo. Tra di loro anche molti siriani. Questi respingimenti seguono un accordo firmato con il Libano nel marzo 2020 in base al quale Cipro può rimandare indietro chiunque tenti di raggiungere l’isola via mare.
L’accordo è stato aspramente criticato dall’Unhcr che ha chiesto la fine di questa pratica, sottolineando come questa privi i profughi del loro diritto di far richiesta d’asilo. Di fatto non è la firma di questo trattato ad impedire ai più disperati di imbarcarsi e traversare il mare. Soli pochi giorni fa, il 23 aprile sono morte sei persone, tra cui un bambino, dopo che una barca che trasportava circa 60 migranti è affondata al largo della costa del Libano.
L’ultimo sbarco, alla data in cui scriviamo, è datato al 28 aprile. Si tratta di 25 siriani, tra cui 6 bambini, che si sono imbarcati dalla Turchia nel pieno della notte e tratti in salvo dalla guardia costiera greco cipriota ad Akamas, penisola all’estremità occidentale di Cipro. Secondo i dati diffusi dall’ Associated Press sono più di 1.337 i siriani che dal 2019 hanno raggiunto l’isola per via marittima.
All’interno del campo di Pournara la maggioranza dei profughi è costituita da nigeriani, congolesi, siriani, afghani e pakistani. La convivenza forzata, nelle condizioni disumane del centro, spesso è causa di violente risse. I rifugiati ci riferiscono che tre settimane fa ce ne è stata una violentissima nella quale erano coinvolte più di 100 persone. Ma nelle liti i poliziotti non intervengono e coloro, come Nasir e sua moglie, che non ne sono partecipi, sono costretti a difendersi da soli: «Siamo andati a nasconderci insieme ad altri dentro la chiesa del campo. Avevamo paura. Poi i poliziotti hanno lanciato dei gas lacrimogeni per sedare la rissa e tutti abbiamo iniziato a tossire».
Anche la sezione per i minori non accompagnati versa in condizioni alquanto critiche e i disordini sono all’ordine del giorno. Come riporta il Cyprus Mail, lo scorso febbraio un ragazzo somalo di 15 anni ha accoltellato al petto, alla pancia e allo stomaco un suo coetaneo per poi darsi alla fuga. Il ragazzo aggredito è stato ricoverato nel reparto di terapia intensiva in fin di vita.
A protestare contro le condizioni inumane all’interno del campo sono stati gli stessi rifugiati che lo scorso 8 marzo hanno dato vita ad una protesta spontanea bloccando l’autostrada prossima al campo in entrambe le direzioni. Dopo pochi giorni, il 14 marzo, il Presidente della Repubblica di Cipro Nicos Anastasiades ha fatto visita al centro promettendo miglioramenti. A quasi due mesi da queste promesse i rifugiati versano ancora in condizioni inaccettabili.
Nel campo l’ultima piaga è diventata la mancanza di acqua potabile. Giunta l’ora del tramonto incontriamo un gruppo di giovani pakistani che fanno ritorno dal supermercato a mani vuote: «Non ci hanno fatto nemmeno entrare. All’ingresso ci hanno detto che siamo illegali e che se non ce ne saremmo andati subito avrebbero chiamato la polizia. Volevamo solo comprare delle casse d’acqua», afferma Bilal, 17enne arrivato qui da solo. Alla sua lamentela gli fanno coro gli altri: «Guardate, ci danno da mangiare e da bere roba scaduta» e indicano un succo di frutta scaduto da qualche giorno. E mentre alcuni ragazzi tentano di distrarsi giocando a cricket, altri decidono di sedersi e di mettersi a guardarli: non vogliono correre il rischio di rimanere più assetati di quanto già non sono.
Nel frattempo si stanno verificando gravi episodi di intolleranza verso i rifugiati da parte della popolazione locale. L’ong per i diritti umani Kisa ha denunciato sul suo sito web l’evento che risale alla notte del 16 aprile quando un gruppo di greco-ciprioti, membri del movimento neonazista ELAM, ha attaccato e ferito un giovane rifugiato siriano. A tentare di soccorrere il ragazzo è intervenuto un suo amico connazionale che è stato colpito a sua volta con una sedia. Lo scontro, alla fine, ha coinvolto otto siriani contro 10 greco-ciprioti ed il culmine è stato raggiunto quando uno del gruppo neonazista ha sfoderato una pistola e minacciato di ucciderli.
Stando sempre alle notizie diffuse da Kisa, quando i due rifugiati feriti sono andati alla stazione di polizia per denunciare l’incidente, gli ufficiali in servizio hanno chiesto loro di andare prima all’ospedale per essere esaminati e poi di presentare la loro denuncia alla polizia. Ma quando sono tornati in commissariato, la polizia si è rifiutata di prendere le loro dichiarazioni ed ha proceduto all’arresto di uno di loro. Kisa sottolinea come solo il giorno dopo l’uomo che aveva impugnato la pistola sia stato arrestato. L’ong conclude il suo comunicato evidenziando le inadempienze con cui la polizia gestisce «la preoccupante ondata crescente di attacchi razzisti e crimini d’odio».